Occhi espressivi, specchio dell’anima. Quando l’inverno finisce ciò che rimane è l’humus vivo e vero celato dal ghiaccio e dalla neve. Quando il buio dell’uomo si rivela, è soltanto alla fine di un percorso minato di scelte sbagliate. Sembra questo il destino di Max Truemont (Josh Holloway; Lost), un poco di buono con l’intento di dare una svolta alla propria vita e sistemarsi insieme alla sua compagna Roxanne (Sara Wayne Callies; Prison Break Stagione 2). Intento nobile, tanto più che i due, stanchi di anni passati in bilico tra legalità e criminalità , appena usciti dal carcere tentano di rimettersi in sesto. Ma, quando la banca nega i fondi necessari, un’alternativa appare inevitabile. La proposta di Sidney (Michael Rooker; JFK, Cliffhanger), vecchio amico anch’egli ex-galeotto, è allettante quanto losca: rapire una persona per poi intascare il riscatto. Il giovane disperato, si lascia sedurre dall’idea e accetta il lavoro. La vittima designata è David Sandborn, figlio di un facoltoso della zona. Il bimbo, quieto e solitario, dal volto angelico (quello di Blake Woodruff, Mr. Ed, The young and the Restless), viene rapito tra la contrarietà di Roxanne, che di lui subito vuole prendersi cura, e la volontà di Max, ormai convinto che quella sia l’unica via per trasformare la sua vita, da fallimento in tranquillità da sempre agognata. La trama si dipana fin troppo rapidamente e quasi logora di stereotipi del cinema hollywoodiano: il rapitore, animato comunque da buoni sentimenti; la ragazza scandalizzata e disorientata dalla decisione del fidanzato seppure leale nonostante le estreme conseguenze; la mente perversa di colui che ha organizzato il tutto; la famiglia della povera vittima e la solita caccia all’uomo portata avanti con scrupolosa professionalità dal detective di turno (Dulé Hill; Kiss me, Edmond). Non mancano ovviamente i contrasti tra i rapitori, contrasti dettati da vecchie beghe e dalla naturale propensione a non fidarsi gli uni degli altri. In fondo tutti sappiamo che la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. In un contesto in cui la sceneggiatura appare scontata, con dialoghi al limite della banalità , il film porta lo spettatore laddove l’ansia si insinua, dove la coltre fredda della paura striscia negli animi degli sventurati... o almeno dovrebbe. Il giovanissimo David non è quello che sembra. Egli svela ai suoi rapitori la realtà infima della loro natura, rende manifesti negli animi i vecchi rancori e mostra loro le immagini della morte a cui stanno per andare incontro. Gli incubi di Roxanne fanno da cornice alle tenebre che a poco a poco calano sulla scena e il confine tra il bene ed il male si confonde. Gli ululati dei lupi, simboli abusati di una natura maligna, coronano il mix di tenebre, giusto corollario di un film che da thriller lentamente trascende in un horror ben girato ma privo di qualsiasi ambizione a causa di una sceneggiatura e di un montaggio scollati e senza pathos. L’idea in fondo non è così originale. Sfruttare la natura maligna di un bambino era già stata impiegata nel film in cui un magistrale Macaulay Culkin faceva inorridire un imberbe Elijah Wood in, appunto, L’innocenza del Diavolo del 1993. In questo, dunque, c’era il rischio di creare un horror già visto o comunque non certo destinato ad essere pregiato di grande originalità . Ad ogni modo, il regista - l’esordiente Stewart Hendler - riesce nell’intento di creare almeno qualche momento di tensione. Ma questo è forse l’unico aspetto positivo dell’intero lungometraggio. Josh Holloway, l’acclamato Sawyer di Lost, si esibisce in un emulo mal riuscito del suo personaggio televisivo. Un cliché, quello del delinquente compassionevole, da cui dovrà tenersi lontano se vorrà dare di sé l’impressione di essere un attore e non un ripetitore di espressioni contrite e sguardi dolci da lanciare a beneficio delle adolescenti. Una tazza di latte caldo, durante le sere d’inverno, a casa davanti alla televisione.