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L'altra faccia del diavolo

25/03/2012 10:00

Erika Pomella

Recensione Film,

L'altra faccia del diavolo

Era il 1973 quando William Friedkin dava in pasto al pubblico una pellicola che in poco tempo sarebbe diventata una delle pietre miliari del genere horror: da q

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Era il 1973 quando William Friedkin dava in pasto al pubblico una pellicola che in poco tempo sarebbe diventata una delle pietre miliari del genere horror: da quasi quarant’anni L’esorcista detta regole e stilemi da seguire per confezionare un buon film sull’esorcismo. Dalle lingue sconosciute, ad esposizioni di turpiloquio passando per le immagini di giovani vittime capaci di contorsioni agghiaccianti, ogni film che tenta di approcciarsi al difficile terreno dell’esorcismo demoniaco sembra dover rispondere a quanto dettato dalla pellicola di Friedkin. In questo senso L’altra faccia del diavolo non fa alcuna eccezione, riproponendo un modus operandi ben noto, che alla fine non sorprende né spaventa uno spettatore preparato.


La storia è quella di Isabella (Fernanda Andrade), giovane americana che decide di partire alla volta di Roma, per andare a vedere sua madre Maria (Suzan Crowley), rinchiusa nell’ospedale psichiatrico di Centrino dopo aver confessato l'uccisione di tre persone. Quello che non tutti sanno è che la strage compiuta da Maria, di cui sono state vittime delle personalità ecclesiastiche, è avvenuta durante un rito esorcista. Desiderosa di scoprire la verità sulla madre, la ragazza si reca alla scuola vaticana per esorcisti, dove conosce Ben (Simon Quarterman) e David (Evan Helmuth), due preti che la introdurranno ai misteri dell’esorcismo e alle beghe burocratiche interne alla Chiesa cattolica. Con il loro aiuto, Isabella tenterà di far chiarezza nel passato di sua madre, il tutto sotto l’occhio vigile di Michael (Ionut Grama), regista che sta girando un documentario sull’intera vicenda.


William Brent Bell oltre a firmarne la regia, è sceneggiatore - insieme al produttore Matthew Peterman - di questo The Devil Inside: ed è proprio in fase di script che si riscontrano i maggiori problemi della pellicola. Dal punto di vista contenutistico il film non presenta spunti originali e/o sperimentali che lo possano distinguere dai suoi predecessori: la classica storia della possessione – una donna che, secondo lo stereotipo, è sempre la vittima predestinata dalle schiere demoniache – viene riproposta sullo schermo in maniera quasi didascalica. Ma quello che più di tutto fa zoppicare il film è un’incoerenza continua, che passa attraverso errori talvolta grossolani. Se all’inizio Isabella sembra suggerire che sua madre sia morta dopo tre giorni di ricovero, lascia di certo interdetti scoprire – poco dopo – che sta andando all’ospedale per vederla dopo tanti anni. Anche le motivazioni e le psicologie degli altri personaggi appaiono stereotipati se non proprio abbandonati a se stessi. Dall’operatore Michael occhio della vicenda di cui non sappiamo assolutamente nulla, salvo poi essere tramutato in uno dei soggetti della diegesi, al personaggio – appena abbozzato – di Ben: egli stesso ci racconta la sua storia e sprazzi del suo passato, ma man mano che la narrazione va avanti emergono dettagli che non solo non vengono in alcun modo spiegati, ma che addirittura contraddicono quando detto in precedenza. Stesso discorso si può fare per David, personaggio che sembra amare la Chiesa, ma che non fa altro che criticarla, forse dando sfogo alle idee del regista che si piega alla facilità di un bersaglio agevole, senza domandarsi se tutto ciò possa accostarsi ad un personaggio come il giovane prete. A tutto questo si aggiunge anche una chiara ignoranza del set scelto: se Roma non è mai apparsa tanto cupa e piovigginosa come in questo film, è interessante notare come il regista inserisca l’inserto di Isabella che esce da Piazza San Pietro e poi, senza spezzare in alcun modo la continuità, fa credere agli spettatori americani che davanti al Vaticano ci sia la monumentalità del Colosseo.


Tutta questa incertezza comporta una diegesi che non raggiunge mai il suo punto massimo, rimanendo distanti da un climax che possa provocare nello spettatore la giusta tensione per un film horror. Purtroppo neanche la scelta registica si può totalmente salvare: ai tempi de The Blair Witch Project l’idea della macchina a mano, con il chiaro intento di dare un aspetto docu-amatoriale alla pellicola, era risultata vincente perché sperimentava un nuovo modo di approcciarsi al cinema. Negli anni, tuttavia, quest’idea è diventata, suo malgrado, l’ennesimo esercizio di stile, tanto che paradossalmente è raro trovare un film horror che si basi sulla narrazione tradizionale. Si pensi ai vari Paranormal Activity, Esp, Rec: tutta una serie di falsi documentari volti a restituire l’idea di una verosimiglianza che viene offerta come realtà. I (pochi) elementi positivi del film vanno ricercati nel finale – non prevedibile, seppur forse troppo affrettato – e nell’ottima campagna di marketing che ha portato al cinema milioni di spettatori. Per il resto, il vero punto di forza di L’altra faccia del diavolo è la durata: finisce prima che lo spettatore cominci a chiedersi perché ha comprato il biglietto.


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