Ci sono state persone capaci di votare la propria esistenza al mito. Dismessi gli anonimi panni di Norma Jean Baker, Marion Michael Morrison o Archibald Leach, ad emergere sono state creature leggendarie, ricoperte di polvere di stelle, che portavano i nomi di Marilyn Monroe, John Wayne e Cary Grant. Si tratta di personaggi che, consapevolmente o meno, hanno rinunciato alla propria personalità, reificando se stessi in un'individualità unica e collettiva. È lo spunto da cui prende avvio il documentario Marley di Kevin MacDonald, presentato a Berlino e uscito nelle sale italiane sotto forma di vero e proprio evento. Chi era Bob Marley? A prima vista sembra estremamente facile rispondere a questa domanda. Con un lascito che va da una filosofia di vita ben determinata a una produzione discografica che definire planetaria sarebbe anche riduttivo, Marley è un volto che appartiene all’umanità, sacrificatosi alla cultura mainstream, mercificandosi non solo in quanto artista, ma come vera e propria icona. Ma a MacDonald questo aspetto dell’esistenza del cantante sembra interessare fino a un certo punto: quello che il regista vuol portare alla ribalta, stavolta, è il personaggio più nascosto e segreto, celato dietro la fama che l’aveva incoronato. Ecco allora che, attraverso le interviste ad amici fidati e ai componenti della sua famiglia, il documentario tende a porre l’accento non più sul messaggio d’amore e redenzione del cantante che ha cambiato il volto della musica, ma piuttosto sull’aspetto più terreno dell’essere umano, evidenziandone anche i lati più negativi, quelli spesso ignorati per via di un amore troppo grande. A fare da contraltare all’immenso concerto messo in scena per festeggiare l’indipendenza dello Zimbabwe, si affianca il concerto privato – lautamente ricompensato – a favore di Omar Bongo, dittatore africano. Kevin MacDonald (L’ultimo re di Scozia e State of Play) si mostra senz’altro coraggioso nel tentare di “profanare” l’immagine di un uomo assunto a vera e propria guida spirituale della musica. Altalenando immagini di repertorio – già viste nel documentario Rebel Music di Jeremy Marr – a confessioni private, il regista riesce a restituire il ritratto di un uomo diviso a metà: dalla sua natura meticcia, che lo escludeva dai bianchi e dai neri, povero da bambino e ricco da adulto, il cantante giamaicano continua a sfuggire ad una facile classificazione, così come capita a quasi tutte le grandi personalità del Novecento. Il risultato di questo esperimento è una pellicola senz’altro interessante e, in qualche modo, innovativa, proprio per la scelta di non adagiarsi su una facile ode. L’eccessiva lunghezza, tuttavia, ne smorza le qualità, rendendolo alla fine ripetitivo e ridondante. Eppure, nonostante le due ore e venti di narrazione, l’interrogativo di partenza rimane lì, sospeso a metà. Chi era, dunque, Bob Marley?