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To the Wonder

07/09/2012 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

To the Wonder

Un anno e mezzo dopo The Tree of Life, Terrence Malick torna sul grande schermo

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A quasi un anno e mezzo di distanza da The Tree of Life, vincitore della Palma d'Oro a Cannes, Terrence Malick torna sul grande schermo, contravvenendo all'immaginario che lo voleva rinchiuso per lunghi anni in una sorta di bungalow a lavorare. Contraddetta questa reputazione - che resta comunque largamente fondata - il regista sceglie la vetrina internazionale della 69° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia per presentare una pellicola multiforme e multilinguistica che racchiude in sé tutte quelle caratteristiche che rendono Terrence Malick un regista senza sfumature: che lo si ami o lo si odi, il suo cinema non lascia mai indifferenti, né si potrebbe mai definire insipido.


L'ex bond girl Olga Kurylenko interpreta una madre single di Parigi che si innamora perdutamente di Ben Affleck, dal quale è ricambiata. Il loro rapporto d'amore vive sospeso tra due continenti, due paesi e due lingue. Due mondi diversi che si rispecchiano nel modo diverso di rapportarsi all'amore. Intorno a loro gravitano personaggi e situazioni, dilatati su un piano temporale disordinato, del quale fanno parte anche Rachel McAdams e Javier Bardem.


Se l'abilità tecnica bastasse, da sola, a trasformare un film in un capolavoro, allora non sarebbe esagerato affermare che pochissimi registi al mondo potrebbero competere con Terrence Malick. Il regista ha sempre dimostrato di possedere un talento naturale nel cogliere, attraverso l'occhio della macchina da presa, la bellezza recondita di ogni cosa, trasferendola in immagini che colpiscono per la tecnica impeccabile con cui sono realizzate. In questo, To the Wonder non fa eccezione: la fotografia di Emmanuel Lubezki e gli scenari sempre affascinanti di Stati Uniti e Francia, permettono al regista di creare una messa in scena poetica, persa nei colori dell'ardesia dei tetti di Parigi, o nell'ocra della campagna americana. Ma la tecnica, in ambito cinematografico, non basta. Se è vero che Terrence Malick si può considerare a tutti gli effetti un autore, per il suo modo intimo di intendere il cinema, non si può dimenticare che i suoi film sono essenzialmente dei saggi filosofici in cui la trama giace abbandonata e dimenticata in un angolo della diegesi. To The Wonder si presenza come una classica storia d'amore, ma in realtà è molto altro e, allo stesso tempo, molto meno. Il regista sembra infatti più interessato a riprendere il discorso iniziato con The Tree of life: se in quest'ultimo Terrence Malick si perdeva nelle spire dell'animo umano attraverso una spiritualità quasi universale, in To the Wonder sceglie una chiave più intima, basata sul personale modo di vivere l'amore, che trova voce nei silenzi perpetui dei personaggi, nella voice-over onnipresente che li sovrasta e quasi li schiaccia nella loro condizione piena di grazia e, al tempo stesso, di instabilità. Personaggi e trama diventano superflui, di troppo, quasi inutili. E tutto ciò si avverte in una narrazione caotica e ridondante. Terrence Malick ha in mente un messaggio ben preciso e ne è così ossessionato che la sua ricerca teoretica finisce col travalicare il cinema stesso, riducendosi ad un guazzabuglio di immagini scollegate e mezze frasi. Il conflitto tra natura e brutalità - da sempre presente nel suo cinema - si allarga fin oltre il quadro, escludendo lo spettatore da una qualsivoglia forma di ricezione che non sia solo contemplativa.


Terrence Malick si guarda e guarda al proprio mondo con autocompiacimento, registrando tutto quello che cattura la sua fervida immaginazione, senza preoccuparsi di tessere un filo logico. Immagini random - la spiaggia che ricorda il finale di The Tree of life, le mani che schermano il sole, una solitaria tartaruga marina - si mescolano a personaggi come il prete di Bardem o all'italiana Romina Mondello, che sembrano soddisfare soltanto l'egoistico gusto estetico del regista. Il risultato è una galleria di immagini spettacolari, prive però di legami emotivi, dove passato e presente si fondono senza un nesso, né possibilità di comprensione. A Malick niente di tutto questo interessa preso com'è dal suo esclusivo viaggio verso la meraviglia. Sarebbe bello se anche a tutti gli spettatori fosse permesso di scorgerla, magari senza dover necessariamente sopportare i gesti plateali e rarefatti di una Kurylenko ridotta ad un essere artificioso, senza spessore e molto più invadente della mancanza di espressività di Ben Affleck.


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