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Il Cecchino

20/11/2012 11:00

Vito Sugameli

Recensione Film,

Il Cecchino

A due anni da Vallanzasca – Gli angeli del male e dalle critiche che accompagnarono la pellicola durante la sua corsa al box office, Michele Placido cambia aria

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A due anni da Vallanzasca – Gli angeli del male e dalle critiche che accompagnarono la pellicola durante la sua corsa al box office, Michele Placido cambia aria e si mette al servizio della macchina produttiva francese con Il cecchino, polar crepuscolare dall'alto budget (16 milioni di euro). Il mosaico filmico assemblato dal regista combina classicismo e modernismo delle opere di Jean-Pierre Melville e Jean-François Richet, con una ghiotta dose di autocitazionismo che ne mantiene certa la paternità. Di Romanzo criminale rimane la rilettura psicologica delle tensioni tra i personaggi - coesi e isolati, onesti e traditori - sottratti alle dinamiche storiche del belpaese e spaesati all'interno di una struttura narrativa sciaguratamente licenziosa e dispersiva.


Il capitano Mattei (Daniel Auteuil) ha in pugno una banda di rapinatori di banche, tra i quali figura un ferito grave (Luca Argentero). Lo scontro a fuoco si capovolge quando il cecchino Vincent Kaminski (Mathieu Kassovitz), appostato sul tetto di un palazzo, riversa il fuoco sui poliziotti permettendo ai complici di scappare. Il colpo non è andato come previsto e la divisione della refurtiva viene posticipata; intanto si rifugiano presso lo studio di un medico corrotto (Olivier Gourmet) dove cominciano i primi problemi. Mentre Mattei organizza una nuova caccia all'uomo, Kaminski viene prelevato con forza dal suo appartamento e interrogato dalla polizia. Vendetta è la parola d'ordine.


Il cecchino tende al realismo glaciale nonostante si affidi allo script claudicante degli esordienti Denis Brusseaux e Cédric Melon. Il soggetto cartaceo anticipa nelle prime pagine l'identità dell'antagonista: eliminata la sorpresa, la responsabilità del regista verte sul mantenimento di un ritmo affamato di azione e intrecci malavitosi che intendano ribaltare continuamente la prospettiva dell'eroe, ed ha l'obbligo di non cedere alla retorica o a soluzioni prevedibili. Da questo punto di vista Michele Placido non tradisce le aspettative: fa tesoro delle esperienze maturate nel genere che più lo soddisfa e riduce al minimo le defaillance, tanto che la sua abilità come cineasta - rispettoso delle opinioni degli attori e attento alla creazione di intense scene drammatiche - non viene messa in discussione. A mancare è la sintesi morale, la riflessione sulla dicotomia buono/cattivo e sul diritto alla violenza, sofferta nella creazione di rapporti umani affrettati e nella risoluta caccia al villain priva di mordente. Non è un thriller autoriale né un prodotto di mediocre intrattenimento; in questo limbo di propositi, Placido non dimentica la grammatica filmica dell'action movie e si serve della fotografia di Arnaldo Catinari per ridurre le sfumature di colore. La refurtiva sottratta a Il cecchino è dunque di tipo contenutistico: il film rivela una tecnica formidabile al servizio di una storia disordinata, essenzialmente inane. Neppure i sentimentalismi amorosi e i traumi post-Afghanistan - che avrebbero dovuto rafforzare i legami strutturali ed emozionali dell'operazione - riescono a sopperire ai vuoti mentali in fase di sceneggiatura.


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