Tra le deserte strade di una Roma abbacinata dal Sole estivo, Nina (Diane Fleri) decide di andare a vivere nel quartiere dell’Eur per prendersi cura del fidato cane Omero, il porcellino d’India Armando e un silenzioso acquario. Ed è proprio tra le pareti dell’appartamento che Nina darà il via ad un’estate dai contorni irreali, in cui il vuoto delle strade capitoline rimanda al vuoto che si propaga all’interno della sua esistenza, indecisa su cosa fare del futuro. Opera prima di Elisa Fuksas, Nina è una pellicola che rimanda allo spettatore il background della regista; figlia d’arte di un famoso architetto e a sua volta laureata in architettura, la Fuksas confeziona un film dagli impianti drammaturgici che sembrano più che altro contrafforti costruiti per tentare di tenere su un racconto allucinato, dove la trama sopperisce alla forza visiva di immagini-manifesto, che la regista rincorre e insegue con determinata testardaggine, in una costruzione che palesemente sembra voler omaggiare lo stile unico e riconoscibile di Michelangelo Antonioni, senza però la forza di una storia capace di risvegliare emozioni e coinvolgimento nel pubblico. Nina sembrerebbe più una prova discreta di performance e arti visive, dove il missaggio di immagini non necessariamente deve sposarsi con un racconto. Come prodotto filmico facente parte di una condizione – come quella cinematografica – dove le immagini si mettono al servizio di storie ed esistenze, appare fin troppo ermetico e lento, così staccato dal mondo – sia reale che finzionale – da suscitare una sorta di straniamento negli occhi di chi guarda. Palesemente indirizzato ai cinefili più incalliti, questo prodotto di nicchia si fa forte di una costruzione scenica razionale e controllata, in cui tutto sembra piegarsi alla volontà della regista che mette se stessa e la sua storia al servizio di questo lungometraggio d’esordio. Il risultato, tuttavia, è una miscellanea di immagini che si rispecchiano negli occhi della protagonista, Diane Fleri, che tenta di trasformarsi in una jeunetiana Amélie, senza tuttavia riuscire a trasmettere la stessa magia, lo stesso senso di disagio di fronte all’attualità storica e civile. Il film della Fuksas è un involucro vuoto, un manichino dall’aria bizzarra che sale in cattedra per parlare agli spettatori del vuoto generazionale che, secondo la regista, è un male universale; il pubblico, però, non sempre vuol essere educato o accusato, neanche per soli 80 minuti, e soprattutto non senza argomentazioni convincenti.