Roni (Kad Merad) è un ricco commerciante amante del denaro e della bella vita; suo fratello Zef (Eric Elmosnino) è un ebreo osservante, con una vita rigorosa fatta di sani principi e moralità . Quando il giorno del matrimonio della figlia del primo viene a mancare la moglie del secondo, gli equilibri familiari si spezzano e le differenze e i conflitti fra i due fratelli vengono a galla. Alle spalle ha un passato da sceneggiatrice per il padre Gérard Oury, cinque film da regista e alcune opere di successo tra cui Pranzo di Natale e Jet Lag: oggi Danièle Thompson ci riprova puntando ancora una volta su una commedia, Benvenuti a Saint Tropez, un budget milionario per uno dei film meno apprezzati nella passata stagione cinematografica francese. Eppure, nonostante il disincentivante titolo scelto dalla distribuzione italiana (l’originale francese, Des gens qui s'embrassent, rende conto - forse meno scanzonatamente - dell’abbraccio corale di una commedia familiare) la pellicola della Thompson è un’opera di impianto classico, lievemente autobiografica e tradizionale per tempi cinematografici, stile e schema narrativo. A partire infatti dalla situazione oppositiva del duplice evento di un matrimonio e di un funerale, la sceneggiatura del film – scritta dalla Thompson in collaborazione col fratello Christopher - si basa quasi in toto sul contrasto fra i due interpreti principali, i due fratelli protagonisti e antagonisti, e sui rispettivi nuclei. Da questi pochi spunti apparentemente banali, la pellicola arriva però a trattare tematiche impegnative come il peso delle tradizioni religiose, degli insegnamenti della famiglia di origine, dell’eredità morale e sentimentale ricevuta da essa. E lo fa divertendosi e divertendo, in un mix di lirismo e ironia, in una farsa che si prende gioco della tradizione ebraica ortodossa così come della Francia borghese. Ciò che del film appare riuscito è quasi totalmente la scelta di cast: oltre all'interpretazione di Kad Merad, un veterano del cinema d’oltralpe di qualità , una sorpresa è la rivelazione Lou de Laâge e il ritorno sugli schermi di Ivry Gitlis, eccezionale attore e musicista israeliano, già protagonista per Truffaut. Buona anche l’interpretazione di Monica Bellucci, per una volta nella parte: auto-ironica e stereotipata quanto basta, l’attrice offre al pubblico un piacevole ricordo dei suoi inizi nella commedia di carattere, poi offuscati dai fallimentari tentativi divistici. Eppure, nonostante le buone intenzioni e gli ottimi attori, Danièle Thompson - complice forse la tendenza ad un certo autobiografismo dominante - sembra dimenticare la rotta in più di un momento. La regista, che in passato aveva saputo compiacere pubblico e botteghino, stavolta pare firmare un film incostante e confuso: da un lato una commedia brillante, con più di uno scambio di battute valido, dall'altra un indeciso racconto borghese, a tratti verboso, che ritorna volutamente e insistentemente, fino quasi a diventare noioso, su temi ricorrenti e ridondanti, come l’ironia sul Talmud, l’ossessione per il denaro, il dovere morale. Anche dove si ride, lo si fa convincendosi solo in parte della totale volontà umoristica o satirica della regista che, quando può, tende spontaneamente al sentimentalismo e alla vedutistica romantica che, anche se cambia location, trova a Parigi la sua realizzazione migliore e più banale. Il risultato finale è una pellicola di frammenti slegati, con momenti vivaci e buoni personaggi, ma di una superficialità diffusa che non la rende indimenticabile.