Renato Zucchelli, ultimo pastore nomade della Lombardia, vive tra montagna e valle con le sue settecento pecore, una moglie paziente e quattro figli. Marco Bonfanti racconta la pastorizia moderna, in un docu-film, attraverso il ritratto di un uomo che nobilita il suo lavoro tra Vangeli e modelli cinematografici e che ha un sogno: trovare uno spazio per il suo gregge anche nella caotica Milano contemporanea. Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Dal vate D’Annunzio all’esordiente Marco Bonfanti, uomini di città raccontano la transumanza e la pastorizia tra la nostalgia di una più semplice e genuina epoca passata e uno sguardo trasognato che rimpiange ciò che nella sua aura decadente costituisce un'unicità poetica. Oppure il soggetto cinematografico per un piccolo film indipendente, realizzato più per i suoi autori che per il pubblico cittadino, di valle o di vetta che sia. Per quanto dotata di un occhio lirico e di una tensione autoriale persino eccessiva per una pellicola – suo malgrado – di impronta documentaristica, l’opera di Bonfanti, approdato alla regia dalla sceneggiatura, resta un girato più scrupolosamente preoccupato della bella immagine che della sua efficacia. "Efficace" in un documentario sulla pastorizia contemporanea può voler dire molte cose: in primis, un'opera che eviti la retorica. Ed invece L'ultimo pastore, nell’impegnarsi al limite del particolare a trasmettere l’eco bucolica di una realtà perduta, indugiando sui dettagli linguistici, storici, folkloristici (come la suggestiva idea della “Via della Lana” che attraversi le pianure lombarde fino al capoluogo) impiega poco a trasformarsi in una moralistica ode alla semplicità e al “buon selvaggio”, interpretato in questo caso dal – davvero così? – ingenuo Renato, che colloca il suo mestiere tra la cultura pop dei film con Adriano Celentano e aulici rimandi alla Natività di Cristo. Nonostante ritratti umani interessanti – come la moglie di Renato o il figlio Giovanni, presunto erede del mestiere – e una struttura narrativa solida che svicola il film dal semplice documentario e vi assegna un più approfondito carattere nella trama, laddove questa si arrovella nelle parole pseudo-filosofiche del pastore, in lunghi ed estetizzanti panorami, in considerazioni economiche pregne ma solo abbozzate, la pellicola perde, nel suo lento corso, ritmo e concretezza. Se la prima parte del film, più documentaristica, offre davvero qualche spunto di riflessione sul divario città/pianura e analizza il ritratto di un uomo definitivamente anticonvenzionale, la seconda parte ostenta uno sforzo eccessivo nel trovare una resa simil-autoriale e fiabesca, nelle immagini della transumanza per le vie di Milano o nello sguardo incantato del pastore ai grattacieli. E se un po’ di retorica si può anche sopportare – e anzi come in ogni ode finisce per farla da padrona – è un vero peccato sorbirsi lo stereotipo oppositivo tra città e campagna, una favola antica quanto Esopo e abusata tanto in letteratura quanto al cinema e in televisione. Infine, dove troppo netto appare il cambio di tono è nel rappresentare la figura del pastore: laddove infatti bastava raccontarne con onestà la formazione, la famiglia, i sogni, nei momenti in cui si tenta un’elevazione eccessiva - a volerne fare un moderno Don Chisciotte (in compagnia del suo Sancho Panza, il suo aiutante Piero) - così come quando si cade in atmosfere grottesche tra alcol e goliardia, esso perde contatto con la realtà e ogni bella intenzione di attualità immediatamente evapora lasciando dietro di sé la sensazione di un'opera ancora troppo pretestuosa per essere veritiera.