Matteo Mercury lavora nel traffico internazionale di cibo adulterati. La sua grande capacità nel gestire il mercato dell’illecito gli ha fatto ottenere il posto di amministratore delegato per una grossa industria asiatica, capace di generare ingenti guadagni. L’incontro con la cinese Xiwen cambierà però il corso non proprio irreprensibile della sua vita corrotta, portandolo ad assumersi le sue responsabilità di uomo, compagno di vita ed essere umano. Alla sua terza regia, Luca Barbareschi punta decisamente in alto e si circonda di collaboratori d’alto bordo: il grande direttore della fotografia Arnaldo Catinari, il montatore Walter Fasano, la costumista Milena Canonero. Un team d’eccezione che ben esemplifica l’aspirazione di Something Good, girato in quel di Hong Kong con l’ambizione di un’elevata fattura da thriller internazionale da portare a casa. Un’operazione che Barbareschi mette in campo senza falsa modestia e con la consueta fiducia nei propri mezzi, evitando, almeno in parte, la deriva kitsch di un’autorialità voluta e cercata a tutti i costi, un rischio concreto che fortunatamente il film riesce a bypassare attraverso una serie di accorgimenti neanche troppo invasivi. Primo fra tutti, l’aver saputo dosare senza troppa infamia (ma anche senza particolari lodi) l’aspetto narrativo del film e quello estetico: due canali che non corrono su binari separati ma procedono praticamente affiancati, senza che la curatissima messa in scena abbia la meglio sull’equilibrio del racconto (e viceversa). Una stabilità che renderebbe agevolmente Something Good un buon prodotto di confezione, non un film indimenticabile ma per lo meno un esperimento funzionale dal punto di vista registico e non del tutto abortito. A compromettere l’integrità del film contribuisce però una povertà di contenuti ben più allarmante, cui la patina dell’impegno civile tenta prontamente di sopperire. I dialoghi trasmettono infatti ben poco, paiono imbalsamati e fin troppo televisivi, battezzati come sono da una sghemba ironia che non si capisce mai bene da che parte voglia andare a parare. In più di un’occasione finisce col prevalere anche una tendenza aforistica che dispensa massime da manualetto con tono grave, serioso e colmo di convinzione. Ed è così che il più classico dei percorsi di redenzione, in cui il Matteo di Barbareschi, da temerario e spietato, arriverà ad apprendere il valore totalizzante del sacrificio personale, si perde nelle tematiche industriali che vorrebbe veicolare, vanificando perfino il suo apparato formale, rendendolo dubbio o comunque ridimensionandolo considerevolmente verso una condizione di subalternità . Il film è scritto, diretto, prodotto e interpretato da Barbareschi: probabilmente troppo, di sicuro un accumulo creativo che nella maggior parte delle occasioni, a meno che tu non sia un principe del gigantismo cinematografico à la Orson Welles, garantisce in misura assai esigua la possibilità di una doverosa distanza creativa. Something Good si sbrodola così non poco, il minutaggio si fa eccessivo e la caratura tutt’altro che italiana si affloscia ben presto mentre Damien Rice e la sua Cold Water risuonano più volte a incorniciare prevedibilmente le scene d’amore. Se i cartelli finali risultano inquietanti e furbastri, oltre che informativi in merito alla questione degli alimenti adulterati, e la parabola di Barbareschi somiglia non poco a quella di Richard Gere ne L’angolo rosso (un’odissea legale da innocente in un remoto paese asiatico), la vera sorpresa del film è Zhang Jingchu (già vista in importanti pellicole di registi orientali quali Tsui Hark, Dante Lam e Ann Hui), con tutta l’ordinaria ed erotica portata del suo timido e remissivo candore.