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Volantín cortao

27/12/2013 11:00

Davide Stanzione

Recensione Film,

Volantín cortao

Paulina ha 21 anni e lavora in un centro di recupero per giovani finiti nelle spire della criminalità...

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Paulina ha 21 anni e lavora in un centro di recupero per giovani finiti nelle spire della criminalità. Ragazzi come lei, cui Paulina si ritrova però a fare da tutrice con impeccabile senso del dovere e una spiccata professionalità, che stride non poco con la sua età da studentessa e i suoi modi forse non ancora del tutto maturi. Il suo quotidiano è tutt’altro che accattivante, a causa dei genitori troppo ingerenti e di una sensazione di soffocamento che Paulina prova a eludere affogandola nella noia monotona e grigia delle infinite peregrinazioni per le strade della sua città, Santiago del Cile. Un’inerzia che non trova pace fin quando Paulina non incontra Manuel, un ragazzo della struttura di quattro anni più giovane di lei. La loro amicizia rischierà di tramutarsi in qualcosa di più senza però mai chiarire o esplicitare del tutto la propria natura, in un clima costante di sospensione e di non detto che sarà letteralmente travolto dalla risoluzione della vicenda.


Il cinema cileno è da un po’ di anni a questa parte uno dei più vitali del panorama sudamericano e in più di un’occasione ha dimostrato una profondità senza pari. Il monumentale Tony Manero di Pablo Larraìn è forse l’esempio più macroscopico di una cinematografia che ha saputo fare della degradazione del proprio sguardo e di una certa tendenza al pauperismo una cifra fondamentale per raccontare un paese, le sue scorie storiche e il suo passato recente da incubo. Diego Ayala e Anibal Jofré nella loro opera seconda, Volantìn Cortao, tentano di inserirsi nel solco di questa nuova ondata di cineasti ribadendone il magistero attraverso il medesimo corredo di stilemi registici ed espressivi: camere traballanti che seguono i passi della protagonista e un cinema etico del primo piano (La Vita di Adele – nelle ambizioni - non è lontano) in cui i registi ricorrono alla camera a spalla per sorprendere da tergo e giocare d’anticipo, provando a essere spiazzanti rispetto a se stessi e alle mosse dei loro attori. Il problema del film è però un conformismo di fondo che si adegua a un’estetica ben precisa senza riempirla di senso, riducendola a stanca maniera e svuotandola di significato. Nella loro insistenza priva di compimento e ridotta a esile formalità, Ayala e Jofré maneggiano premesse interessanti ma senza mai realmente giungere a delle considerazioni rilevanti, senza mai suggerire un’affezione per quelli che saranno gli sviluppi della loro storia. Nobile negli intenti ma stiracchiato negli esiti, Volantìn Cortao è un film un po’ troppo idealisticamente orientato verso il sociale ma assai poco capace, nei fatti, di dare rilievo agli scossoni e ai tumulti trasversali di una realtà specifica e tormentata come quella cilena.


Si procede così per accozzaglia d’immagini che difficilmente e troppo di rado trovano un’adeguata cementificazione narrativa, approdando in modo spompo e prevedibile alla catarsi finale, snodo risolutivo abusato da un certo cinema del dolore pietistico e piccolo piccolo. Un cinema che non riesce a crearsi altri sbocchi all’infuori di una malsana e indebita aggressione ai danni dello spettatore, non richiesta né tantomeno necessaria. La reazione, in questi casi, non può che essere di sprezzante e anche un po’ irritato rifiuto per una traiettoria di racconto e delle dinamiche decisamente programmatiche, che solo una maggiore strutturazione precedente avrebbe potuto scongiurare. Quello dei due registi, e dispiace rilevarlo per un cinema anagraficamente così giovane, è un film un tantino saggistico e soprattutto polveroso, che sbatte in faccia con violenza i suoi contrassegni senza mai intercettare un barlume di complessità o rimandare a dei validi e urgenti interrogativi. La stessa Santiago del Cile nella quale Paulina e il ladro gentiluomo Manuel si conoscono e si sfiorano non diventa mai un personaggio aggiunto perché il duo è troppo impegnato a soffocare le proprie inquadrature addosso ai protagonisti, in un’ansia di carnalità piuttosto inutile, mal dosata, che relega ogni elemento circostante, sulla carta potenzialmente notevole, in delle strettoie senza via di fuga. Un peccato.


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