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Lo sguardo di Satana - Carrie

08/01/2014 12:00

Marco D'Amato

Recensione Film,

Lo sguardo di Satana - Carrie

Kimberly Peirce (Boys don’t cry, per il quale Hilary Swank vinse un Oscar) si cimenta con uno degli esperimenti, purtroppo, più in voga nella Hollywood moderna:

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Kimberly Peirce (Boys don’t cry, per il quale Hilary Swank vinse un Oscar) si cimenta con uno degli esperimenti, purtroppo, più in voga nella Hollywood moderna: il remake di cult horror. Carrie però non è una pellicola qualsiasi: è il lavoro che nel 1976 lanciò la carriera di Brian De Palma, fino ad allora regista semisconosciuto, e facendo di Stephen King l’autore di libri horror più famoso del mondo.


Carrie (Chloe Grace Moretz) è all’ultimo anno del liceo: è solitaria, introversa e timida; le compagne di classe la emarginano, la scherniscono ogni qual volta ne abbiano l’occasione e fanno di lei lo zimbello del gruppo. La ragazza in realtà è vittima dell’educazione ossessivamente ortodossa della madre Margaret (Julianne Moore), cattolica integralista e manichea, assillata dall’idea di un Peccato che vede ovunque, persino nella demoniaca capacità della figlia di spostare gli oggetti con il pensiero. L’unica spalla di Carrie è la professoressa di educazione fisica, Miss Desjardin (Judy Greer): quando minaccia le ragazze di vietar loro il ballo di fine anno, Sue (Gabriella Wilde) si pente e rinuncia spontaneamente chiedendo al suo fidanzato Tommy (Ansel Elgort) di accompagnare Carrie al ballo. La bellezza, la gentilezza e la dolcezza della ragazza fanno breccia nel cuore di Tommy e Carrie trascorre la sua serata magica fino a quando cade vittima dell’ennesimo scherzo tesole dalla perfida Chris (Portia Doubleday) e dal fidanzato Billy (Alex Russell). Il potere telecinetico di Carrie si scatenerà devastando ogni cosa fino a quando sarà compiuta la sua vendetta.


Kimberly Peirce ci sa fare: lo si nota in ogni inquadratura e in ogni piccolo dettaglio atto a ricreare un risultato tecnicamente riuscito e godibile, soprattutto per le nuove generazioni. Ma la ragione di questo remake sfugge alla comprensione comune: solitamente si sceglie la carta del rifacimento quando si vuole svecchiare una produzione mediocre che riserva tuttavia delle buone intuizioni (e non è assolutamente questo il caso), per inserire il film in un contesto diverso, come accade nell’occidentalizzazione degli horror asiatici, oppure quando si prova a rileggere un classico in chiave moderna. Questo aggiornamento del 2013 sembra decisamente più una sorta di omaggio al Carrie di Brian De Palma che una rilettura innovativa: trama e molti dialoghi non sono cambiati di una virgola e del lavoro del regista italoamericano vengono riproposte scelte stilistiche (i rallenty nello spogliatoio) e concettuali (il ruolo del sangue). Le modifiche strutturali si riducono al prologo e a un finale leggermente diverso, più fedele al romanzo, anche se un po’ tirato via - la rilettura in chiave moderna si ferma ai video su YouTube. A catturare l’attenzione è una Carrie più matura, più consapevole e meno succube della madre: rispetto alla versione del 1976 non è terrorizzata dai suoi poteri ma ne è incuriosita, consapevole, li studia, li affina e non ne è completamente travolta come dimostrano la sorte riservata a Miss Desjardin e il gioco letale con Chris e Billy. Nel mare di personaggi secondari spicca l’ottima prova di Julianne Moore, il vero catalizzatore horror del film: invecchiata, imbruttita, ossessiva e spaventosa. Regge bene la dura prova anche Chloe Grace Moretz, penalizzata però dalla mancanza di physique du rôle: troppo belloccia e in salute rispetto a Sissy Spacek che comunicava sofferenza e patimento a ogni sguardo.


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