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A proposito di Davis

30/01/2014 12:00

Lorenzo Pedrazzi

Recensione Film,

A proposito di Davis

L’incipit di A proposito di Davis è un piccolo enigma che sembra riassumere la poetica ironica e spiazzante dei fratelli Coen: un uomo misterioso, celato nel bu

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L’incipit di A proposito di Davis è un piccolo enigma che sembra riassumere la poetica ironica e spiazzante dei fratelli Coen: un uomo misterioso, celato nel buio di un vicolo newyorkese, attende l’arrivo del cantante folk Llewyn Davis (Oscar Isaac) dopo un’esibizione al Gaslight Café, un locale del Greenwich Village, e lo accoglie a suon di cazzotti sul grugno e calci nello stomaco. Non conosciamo l’identità dell’aggressore né le sue motivazioni, ma l’intero film è costruito per giustificare questa prima intrigante sequenza, attraverso un’abile struttura narrativa che si rivelerà soltanto alla fine.


Ciò che scorre nel mezzo, tra richieste di ospitalità e un gatto da inseguire, sono cinque giorni nella vita dello scapestrato ma talentuoso Llewyn Davis, campione di quella musica che «non è mai stata nuova e non invecchia mai», mentre cerca di affermarsi come solista dopo il suicidio del suo partner Mike Timlin nella New York del 1961. I Coen risalgono così alle origini della tradizione cantautoriale statunitense, prima che la luce di Bob Dylan oscurasse la vasta costellazione di musicisti folk che affollava il Village: le disavventure di Llewyn, parzialmente ispirate alla biografia di Dave Van Ronk, sono l’emblema di una vita sacrificata in nome della propria arte, divisa fra le pulsioni contraddittorie della fama e dell’autenticità professionale; pur desiderando l’affermazione e il successo, e quindi l’opportunità di guadagnarsi da vivere attraverso la musica, Llewyn teme infatti di subirne la corruzione, ed è ossessionato dall’idea di conservare la propria onestà sia di uomo che di artista. Siamo di fronte a un nuovo antieroe coeniano, l’ennesimo “perdente” che suscita l’irritazione di amici e parenti (memorabile la cascata di epiteti che gli riserva Carey Mulligan) mentre combatte una battaglia già persa in partenza, senza nemmeno un cappotto per difendersi dal freddo o un tetto stabile sopra la testa. Le performance musicali rappresentano gli unici momenti di sollievo per lo sventurato Llewyn, che esegue canzoni e melodie estrapolate dal repertorio folk degli anni Cinquanta e Sessanta, ma reinterpretate – e registrate direttamente sul set, senza ricorrere al playback – dal bravissimo Oscar Isaac.


La raffinata costruzione delle inquadrature si avvale dell’ottima fotografia di Bruno Delbonnel, le cui tonalità desaturate e livide riproducono efficacemente il rigido inverno newyorkese, dialogando al contempo con l’atmosfera cupa e fumosa dei club del Village. Tali scelte cromatiche, peraltro, suscitano un delizioso effetto straniante non appena Llewyn entra in contatto con una bizzarra galleria di personaggi stralunati, tipico prodotto della fantasia dei Coen, tra i quali svetta il musicista jazz interpretato da John Goodman: questi incontri apparentemente casuali, uniti all’amara brillantezza dei dialoghi e al gusto sottile per l’assurdo (sempre screziato di malinconia), stabiliscono un clima surreale che concede il giusto spazio al lirismo delle canzoni folk, suonate integralmente per restituire il senso di una vera esibizione, percepibile dagli spettatori come una prova concreta di virtuosismo e sincerità espressiva. Emblematica la sequenza in cui Llewyn canta la splendida The Ballad of Queen Jane di fronte a Bud Grossman, personaggio ispirato a un noto e quasi omonimo produttore di musica folk, Al Grossman: si tratta di una scena chiave nell’economia del film, esemplare per carica emotiva ed eleganza d’esecuzione, nonché potenziale momento di svolta per la carriera del protagonista. Ma spesso l’autenticità, per quanto genuina, non paga.


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