Un finto documentario narra la genesi dell'immaginaria casa di produzione "Trinacria", ideata dai fratelli La Marca nella Sicilia del dopoguerra. Nonostante la benedizione del set da parte del vescovo Sucato, la Trinacria produrrà da subito pellicole disastrose, squallide, girate con povertà di mezzi e proiettate in sale semideserte. La speranza di risollevarsi dagli insuccessi proverrà da un inquietante barone - appassionato di occultismo - che desidera raccontare la vicenda del leggendario conte Cagliostro, dotato di poteri sovrannaturali. Tuttavia, le doti improvvisate del cast e l'incapacità delle troupe porteranno al manicomio gli attori più meritevoli e sanciranno il fallimento e la vocazione "maledetta" della casa di produzione. Il ritorno di Cagliostro si apprezza tutto d'un fiato, come una confessione sentimentale. Ne si gode, ci si diverte e, soprattutto, ne si ama la cifra trash, la vena tragi-comica e il ritmo sostenuto. Unità di misura del film di Daniele Ciprì e Franco Maresco è il cattivo gusto. I due registi spalancano le porte sulla bottega dei fratelli cinefili Salvatore e Carmelo La Marca, come se aprissero i cancelli di un manicomio o della Villa dei Mostri di Bagheria. Tutto in Cagliostro si conforma a un'estetica del brutto, persino l'arte sacra, di solito eterea e in accordo con canoni classici: sul muro della bottega è appeso un Cristo senza braccia, una Madonna viene spostata dall'altare poiché spaventa i fedeli e l'effige di un santo esibisce un fallo sproporzionato. I personaggi del film, costretti in stanze allo sfascio, hanno bocche sdentate, corpi deformi (a volte flatulenti): nani o gobbi, sono soggetti che difficilmente mancherebbero in un circo di fenomeni. Nulla nel film si sottrae alla farsa, dal bianco e nero della pellicola - che si finge antico - ai critici cinematografici che prendono parte al documentario fasullo, interpretando sé stessi. Come Cagliostro, che infonde vita alle statue inanimate, Ciprì e Maresco mettono in scena una verità politica ed esistenziale raccontando la rassegnazione della Sicilia e l'impossibilità di costruire qualcosa al di fuori del circuito e della volontà della malavita. Per farlo, scelgono la forma della finzione grottesca: fanno ridere, ma suscitano anche nello spettatore la vergogna di condividere la stessa natura biologica degli esseri malvestiti, miserabili e inetti rappresentati sullo schermo. Abitanti della terra dei Malavoglia, per i quali una barca chiamata Provvidenza non solo non è mai naufragata ma neppure mai salpata.