Immaginate il deserto del confine Stati Uniti-Messico e, sperduto in mezzo a esso, il volto allucinato di uomo senza memoria, sbucato da chissà dove. Non sarà difficile scoprirne l’identità o ricongiungerlo a quel che rimane della sua famiglia, abbandonata apparentemente senza motivo quattro anni prima. È il fratello Walt (Dean Stockwell) a ricordare a Travis (Harry Dean Stanton) il proprio nome e a tentare di ricondurlo dolcemente verso casa, verso il figlioletto Alex; lo porta lontano da Paris, Texas nella speranza di allontanarlo anche dalle ectoplasmatiche illusioni e dai tristi e confusi ricordi che gli offuscano la mente. Spesso capita però che la ragione soccomba al cospetto delle creazioni che l'inconscio costruisce per salvarci da realtà spesso più dure della pietra. Certe persone, certi luoghi, sono calamite alle quali risulta impossibile resistere. Così è per Travis Paris, Texas. Il viaggio è solitamente un archetipo con il quale si dà un corpo al tema della scoperta, ma Wim Wenders col suo road movie del 1984 sembra essere profondamente intenzionato a ribaltare questo concetto in una maniera assoluta. Il regista tende a mostrare soprattutto luoghi che appaiono sospesi nel tempo e privi di memoria, indugiando nello specifico su quelle strutture architettoniche che sembrano rifiutare la funzione per la quale sono nate. Non si tratta però soltanto di confezionare un’estetica del film, ma anche di creare un’associazione emotiva tra posti e personaggi. Travis è in un deserto del Texas dal fuorviante nome (Paris) nel quale è possibile cercare la propria origine, mentre l’ex moglie Jane (Natassja Kinski) viene ritrovata proprio nei pressi di una banca che somiglia a un supermercato. Le cose sono spesso diverse da come appaiono e può accadere che l’immagine reale venga sostituita da una proiezione artefatta, creata dalla mente per rendere possibile un amore assoluto e definitivo. Una prigione di promesse e aspettative dal quale a un certo punto diventa necessario liberarsi, anche a costo di ferire chi si ama di più. Per vedersi può però essere sufficiente trovare un luogo nel quale sia materialmente impossibile guardarsi - il peep show - e dove vi sia un freddo vetro riflettente che impedisca il contatto fisico degli amanti. È pertanto attorno all’incomunicabilità e alla relativa solitudine che ruota l’opera, con il sostegno di una sceneggiatura scritta a quattro mani dallo stesso Wenders e dal suo fidato collaboratore Sam Shepard. Il tema è tanto netto e compatto negli intenti da permettere ai due autori di ragionare per sottrazione per quanto concerne la scrittura e, una volta completata la prima metà del copione, cominciare a osservare la direzione verso la quale la storia vuole muoversi. Fino a un finale che, pur essendo aperto, è tanto perfetto da non poter risultare incompleto. Wenders trova così un modo per riprendere le fila della sua esperienza americana, dopo essere entrato nelle logiche di mercato con Hammett (1983), recuperando la capacità di guardare agli Stati Uniti con gli occhi del forestiero come era avvenuto nel precedente Lo stato delle cose (Leone d’Oro a Venezia nel 1982). Siamo lontanissimi dall’entusiasmo della scoperta che animava L’amico americano (1977) perché Paris, Texas è caratterizzato piuttosto dal nostalgico ricordo di una promessa mai avverata. Sono soprattutto i paesaggi texani a permettere di comprendere questa strana sensazione, grazie alla fotografia di Robby Muller, ben attento a far dimenticare allo spettatore la pesante mitologia del luogo, avvalendosi anche della trascinante musica di Ry Cooder. Non sorprende che questo piccolo progetto indipendente, che ricongiunge il regista tedesco alle sue origini cinematografiche e segna la sua volontà di tornare finalmente a casa, abbia vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 1984 e che oggi, trentuno anni dopo, torni in sala con la medesima capacità di commuovere.