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Blackhat

11/03/2015 12:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

Blackhat

Michael Mann torna a lavorare sul tema dell'invisibilità

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Un pericoloso cyber-criminale minaccia i governi di USA e Cina con attacchi informatici che fanno esplodere centrali nucleari e mandano in tilt le Borse. Quando l'FBI scopre che i suoi colpi si basano su un codice creato anni prima dall'haker Nicholas Hathaway (Chris Hemsworth), in prigione per scontare una pena di quindici anni, il governo decide di scarcerare Hathaway e chiedergli aiuto per una pericolosa caccia all'uomo.


In Collateral si trattava di dare luce a una notte densa di azione, in Miami Vice la sfida era vedere senza essere visti, in Heat raccontare la distanza. La dimensione dell'invisibile interessa Michael Mann e torna in ogni sua pellicola, puntualmente, fino a diventare tema e pretesto narrativo attorno a cui giocare con innumerevoli soluzioni registiche. Risolvere il non esistente, il non visibile, il non detto. Non stupisce che dopo misteriosi narcotrafficanti, criminali senza identità e la rappresentazione “pubblica” del nemico, la scelta di sceneggiatura ricada ora su un anonimo, potentissimo hacker. Un antagonista senza volto, dotato di armi incomprensibili e piani sconosciuti – che attaccano però il sistema nel suo cuore pulsante ed esplosivo – al quale Mann contrappone un eroe rinnegato, chiamato a uscire non solo dal carcere ma dalla stessa ombra in cui agisce il cyber criminale. Per il suo ritorno al cinema, sei anni dopo Public Enemies, Michael Mann decide di lavorare su una trama di rimozione dell'invisibilità.


A doversi rendere visibile, dopo anni di hacking, è il protagonista: sorvegliato dall'FBI e costretto a svelare i suoi trucchi, Hathaway deve acciuffare un criminale le cui armi hanno la consistenza di codici e formule, ma sono dirompenti quanto i movimenti dei mercati azionistici e mietono le vittime di un'esplosione atomica. Michael Mann taglia e cuce sul suo film un vestito thriller che gioca costantemente sull'alternanza tra l'impalpabilità del cyber crimine e le azioni (semi)terroristiche che esso oppone ai governi. Nel rendere questo meccanismo di causa-effetto, il regista gioca ancor più che in passato sui livelli temporali, facendo assumere a Blackhat una forma complessa che le numerose ellissi e simbologie rendono non del tutto immediata. Ciò che la trama perde in scioltezza, però, il montaggio lo restituisce in ritmo (sempre quello dominante dell'action) che riesce a unire spazi lontani, a fare dialogare personaggi che – di fatto – mai si incontrano faccia a faccia, a giostrarsi fra "pericolo reale" e "pericolo percepito". Morgan Davis Foehl scrive una sceneggiatura che si plasma alla regia e, soprattutto, mostra la capacità – per la prima volta, da quando l'attore australiano calca il grande schermo – di ritagliare nella trama un ruolo sfaccettato per Chris Hemsworth, messo in condizione di dare prova di quanto sappia fare (ancora non molto, ma meglio che in altri film).


Ancora una volta, Michael Mann mostra di essere un innovatore: non solo dirige un action thriller con interessanti variazioni autoriali sul tema – peraltro un po' modaiolo – del web crime, ma traduce la rappresentazione dell'universo cyber in qualcosa che trova riscontro nelle soluzioni tecniche e visive adottate. Coerentemente, Blackhat è il primo film di Michael Mann a essere girato interamente in digitale, ostentando riprese e dettagli tecnologici. Un'insistenza questa che appare a tratti un po'manieristica, ma che si colloca in un più esteso racconto del web come ragnatela che lega realtà virtuale e mondo esistente, indirizzi ip ed esseri umani.


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