Dario (Dario Raimondi) vive in Sicilia e si è appena laureato: senza lavoro, né prospettive, passa le giornate bighellonando con l'amico Nicola (Alessio Barone), di professione tappezziere. Un giorno “Il Professore”, personaggio più losco e potente del paese, gli propone uno scambio di favori: per una raccomandazione, Dario accetta di consegnare una busta chiusa e segretissima a Roma. La missione, in cui è coinvolto anche Nicola, si rivelerà più pericolosa del previsto. Ve la ricordate la valigetta di Pulp Fiction? Non si tratta esattamente dello stesso genio creativo ma Fuori dal coro, opera prima di Sergio Misurarca, un accostamento con il cult di Tarantino se lo merita tutto. Non solo perchè, per sua stessa dichiarazione, è - insieme a Martin Scorsese - uno dei registi che più lo hanno ispirato, ma anche per un certo gusto dell'eccesso. Questo, sicuramente, Misurarca non l'ha appreso dal cinema italiano. Il suo esordio, a metà fra DePalma e Ciprì&Maresco, zoppica ancora parecchio ma ha molti aspetti interessanti. Primo fra tutti, l'originalità della contaminazione. Quello di Misurarca è un sogno cinematografico iniziato vent'anni fa, quando giovane cameriere a Los Angeles, incontra Robert De Niro e gli serve un piatto di spaghetti. Per lui, intriso dell'estetica di Francis Ford Coppola e neofita di Quentin, si tratta di un segno: da una matrice autobiografica e dalla fascinazione assoluta per la vera Hollywood - quella un po' fracassona, dell'eccesso e del kitch - nasce Fuori dal coro, tenuto per anni in un cassetto ma mai abbandonato, nonostante la negazione di finanziamenti pubblici e i mezzi limitati. Un piccolo budget, qualche attore fidato (più un paio di volti storici siciliani), location note e tanta cultura cinematografica - per ora - possono bastare. Fuori dal coro si guarda con leggerezza ma rimane effimero: le buone trovate si percepiscono, anche se nessuna va mai realmente a segno. Non è la recitazione ad alti e bassi a disturbare e neanche gli aspetti più grotteschi: persino lo stereotipo ingenuo - il ritratto chiassoso del sud, lo slavo cattivissimo, la dark lady - quando viene accompagnato all'eccesso verbale e visivo, può fare sorridere. C'è però sempre qualcosa che sfugge di mano a Misurarca. La narrazione è incerta, cautamente divisa in tre atti, indecisa se seguire il mcguffin - la busta chiusa - o tenere il ritmo dell'inseguimento sgangherato. Anche la regia (con la fotografia di Giuseppe Pignone) alterna a momenti più comici e leggeri una pretenziosa ricerca del noir, più nelle citazioni che in trovate originali. Eppure, un plauso speciale va alla fantasia, all'entuasiamo con cui Misurarca succhia linfa (e idee) da Hollywood per trascinarle in una leggera trama criminale all'italiana, dotata di un umorismo nero che ci appartiene pochissimo. Ma che è divertente.