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Eisenstein in Messico

04/06/2015 11:00

Mattia Caruso

Recensione Film,

Eisenstein in Messico

Per Peter Greenaway il cinema è sempre stato troppo importante perché fosse lasciato in mano ai semplici narratori di storie...

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Per Peter Greenaway il cinema è sempre stato troppo importante perché fosse lasciato in mano ai semplici narratori di storie. Non sorprende allora l'irruenza visionaria e affettiva con cui il controverso autore britannico si è accostato a una figura tra le più significative e fondamentali che la storia della Settima Arte ricordi. Teorico, rivoluzionario, innovatore del linguaggio cinematografico, Sergej Eisenstein pare una personalità irrimediabilmente legata all'idea stessa di cinema di Greenaway, una tappa obbligata di un percorso autoriale estremamente eclettico e sperimentale eppure, allo stesso tempo, forte e rigoroso. Non poteva che essere una biografia anomala quella del regista di The Baby of Macon, incurante di qualsiasi verosimiglianza puntigliosa e insofferente a quella retorica della banalizzazione di vite eccezionali tipica del quel cinema “narrativo” tanto stigmatizzato.


Eisenstein in Messico è la cronaca folle e farsesca del breve soggiorno del grande regista sovietico nella terra di Zapata e Pancho Villa, per girare un film sulla rivoluzione (Que Viva Mexico!, che mai vedrà la luce). Greenaway atrofizza l'essenza stessa di una vita condensandola in dieci giorni sconvolgenti che hanno le tinte stravolte e buffonesche dell'iniziazione sessuale. Attraverso il consueto stile debordante, il regista mette in scena un trionfo barocco e scanzonato dell'eccesso, una parabola giocosa dove Eros e Thanatos si inseguono nell'interiorità di un uomo e della sua arte.Una folle lezione di cinema che travalica i confini dell'omaggio, del rigore intellettuale, del rispetto reverenziale. Il viaggio di formazione omosessuale di un regista, presentatoci in tutta la sua inedita, giullaresca e tragica stravaganza (un bravissimo Elmer Bäck), preda di una travolgente passione per la sua guida locale e alla ricerca disperata di una rinascita fisica e spirituale. Arte e vita si fondono come non mai in un ritratto dove dimensione pubblica e privata coincidono indissolubilmente e la Storia si trasfigura in una giostra anarchica dal sapore surreale.


Artista, sperimentatore, esploratore dei limiti e della resa espressiva dell'immagine cinematografica, il regista de I racconti del cuscino e L'ultima tempesta guarda con occhi da allievo a un maestro: Eisenstein è un genio, un padre putativo senza il quale quell'intero mondo di visioni e incanti formali non sarebbe - forse - mai esistito. Tra carrelli vorticosi, split screen, processioni in maschera, erezioni esibite e inserti storici in un sovraccarico espressivo che spinge ai limiti le possibilità visionarie del cinema, Greenaway reinventa il regista de La corazzata Potemkin e Ottobre, del montaggio delle attrazioni e della rivoluzione sovietica, facendolo rivivere dentro il suo immaginario grottesco, estetizzato tra drammi, eccessi, amore e morte. Lontano dalla provocazione compiaciuta e intellettuale di cui, fin troppo spesso, il suo cinema è stato accusato (“Sono quadri, non pornografia” pare difendersi il suo alter ego, all'interno del film), con Eisenstein in Messico Greenaway si (e ci) diverte restituendoci un personalissimo, affettuoso ritratto ai limiti della parodia. Un ispirato e anomalo saggio sul cinema, esaltazione sguaiata e giocosa di una passione che non finirà mai.


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