Tratto dal libro omonimo di Uzodinma Iweala, un film di Cary Fukunaga presentato in concorso alla 72esima edizione del Festival di Venezia e distribuito da Netflix. Il film racconta la storia di Agu (Abraham Attah), un bambino africano strappato all’infanzia e addestrato per diventare un soldato. Un lavoro brutale, che urla verità e scuote le coscienze. Una guerra tra poveri raccontata dal punto di vista di un bambino al quale la telecamera sta addosso, frenetica, come a imprimere ogni turbamento. Attraverso queste inquadrature la regia ci porta sul campo e ci fa passeggiare attraverso cadaveri, soldati stanchi e ammalati, ingiustizie e violenza. Il film si apre con una scena divertente che racconta i giochi spensierati di bambini innocenti e ancora non toccati dall’orrore, ma le prime scene - le uniche davvero serene - durano poco. Il regista ha come l’urgenza di portare lo spettatore in luoghi sanguinosi, raccontando senza riserve questo percorso di educazione militare, fatto di prove da superare, di capi da conquistare, di fiducia da meritare. Il protagonista non ha scelta: l’alternativa è la morte. Ma piegarsi a questo percorso non è poi così difficile. La stessa guerra civile che ora gli sta dando una chance lo ha strappato dagli affetti. La guerra, causa di dolore ma anche unica possibilità di rinascita. Agu lo sa bene: il personaggio mostra sempre nelle sue azioni di aver scelto consapevolmente la dannazione, pur avendo poche opzioni. Lo sa bene quando, nelle stesse preghiere che la madre gli ha chiesto di rivolgere a Dio, ammette di essere una persona spacciata. Realizzando un adattamento fedele al romanzo, Beasts of No Nation mette in scena uno script corposo ma che si lascia seguire. Le immagini, forti sono spesso intervallate dal voice over del protagonista; i pensieri, insanguinati da quelle scene, anestetizzano il dramma e il livore. Quella ferocia sbattuta in faccia allo spettatore è la stessa che muove le azioni di un bambino soldato, quello stesso bambino che nelle battute iniziali del film gioca con lo schermo di un televisore rotto, "il televisore immaginario". Fukunaga, autore della prima - celebre - stagione di True Detective, realizza un bellissimo ritratto di un innocente, vittima e carnefice nella guerra civile (grazie all’intensa interpretazione del suo giovane protagonista Abraham Attah) e soprattutto grazie alla voglia di non salvarlo, di non chiedere indulgenza. Per tutto il film si ha la sensazione che si voglia solo raccontare una storia, spietata - senza dubbio - ma spogliata di fronzoli ed effetti speciali. Peccato per il finale che cede, forse stanco, all’emotività . Ma questo possiamo perdonarglielo.