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Alaska

06/11/2015 12:00

Caterina Bogno

Recensione Film,

Alaska

Il 2015 è un anno significativo per Claudio Cupellini: dopo aver diretto alcuni episodi della seconda stagione della fortunata Gomorra – La serie, il regista di

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Il 2015 è un anno significativo per Claudio Cupellini: dopo aver diretto alcuni episodi della seconda stagione della fortunata Gomorra – La serie, il regista di Lezioni di cioccolato (2007) e Una vita tranquilla (2010) torna nelle sale dal 5 novembre con il drammatico Alaska, presentato alla Festa del Cinema di Roma lo scorso ottobre.


Fausto (Elio Germano) è un italiano emigrato a Parigi che lavora come cameriere in un albergo di lusso nella speranza di diventare maître e di aprire, un giorno, un ristorante tutto suo. Sulla terrazza dell’hotel Fausto conosce Nadine (Astrid Bergès Frisbey) che, con la sfrontata bellezza dei suoi vent’anni, aspira a una carriera da modella che le consenta di abbandonare la deprimente provincia dalla quale proviene. Un incontro che assume rapidamente le tinte fosche del dramma, legando inscindibilmente i loro destini in un rapporto complicato e sofferto che per cinque anni si consuma tra Parigi e Milano.


Alaska non è soltanto una storia d’amore: è la cronaca cruda, a tratti impietosa, di una disperata ricerca della felicità da parte di due individui che al mondo non hanno altro che se stessi e la propria volontà testarda. Fausto e Nadine ambiscono a un futuro migliore: più ricco, più scintillante, più vivo. Sono entrambi determinati ad abbandonare la loro posizione ai margini geografici, economici e sociali per spingersi finalmente al cuore pulsante dell’esistenza. È così che si trovano presi in un vortice che dai bassifondi dell’abiezione li conduce sino alle vette più glamour dell’affermazione sociale e poi di nuovo giù, verso la nera disperazione. «Vivo così, tra il sociale e il vuoto», per dirla con i Baustelle de La vita va. E non contano le vittime lasciate indietro lungo la strada...l’importante è che la mente sia sempre fiduciosamente rivolta all’Alaska, un locale trasgressivo nel centro di Milano o, in fondo, proprio quell’irraggiungibile felicità alla quale non si smette mai di tendere. Malgrado le indubbie potenzialità che nasconde – lo sguardo disincantato che sta dietro alla vicenda e ai personaggi; soluzioni visive estremamente efficaci; scelte interessanti a livello della colonna sonora – Alaska risulta incapace di spiccare effettivamente il volo, ancorato a una sceneggiatura che sembra nascondere dietro il serrato susseguirsi degli eventi una sostanziale povertà di contenuto. Difetto significativo, questo, ma che non impedisce a quest’opera di brillare di luce propria nel panorama troppo spesso ombroso del cinema italiano.


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