30 lungometraggi da regista, 8 sceneggiature, 139 produzioni, 4 Oscar e 15 nomination: sono solo alcuni dei numeri di Steven Spielberg. Nel corso di questa impressionante carriera il regista di Cincinnati ci ha portati a spasso da un’epoca storica all’altra: l’età dello schiavismo negli Stati Uniti raccontata in Amistad (1997), la guerra di secessione americana con Lincoln (2012), la Prima Guerra Mondiale in War Horse (2011) e la Seconda in Salvate il soldato Ryan (1998), Schindler’s List (1993) e L’impero del sole (1987). Con A. I. Intelligenza Artificiale (2001) e Minority Report (2002) ci ha condotti addirittura nel futuro: rispettivamente nel 2125 e nel 2054. La guerra fredda aveva già trovato una rappresentazione con il ritorno, dopo diciannove anni, dell’archeologo Indiana Jones in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (2008), che metteva in scena il conflitto nella dimensione dell’avventura. Con Il ponte delle spie, Spielberg torna agli anni della contrapposizione tra i due blocchi di potenze per raccontare una storia vera: quella di James Britt Donovan, un avvocato newyorkese che nel 1962 finì a negoziare in qualità di privato cittadino un delicatissimo scambio di prigionieri tra gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e la DDR. Partner dello studio legale Watters and Donovan, nel 1957 Donovan – interpretato magistralmente da Tom Hanks – è chiamato a difendere in tribunale Rudolf Abel – un compostissimo Mark Rylance – accusato di essere una spia dell’Unione Sovietica. In un clima ancora fortemente influenzato dal maccartismo, Abel si guadagna immediatamente il titolo di “Uomo più odiato d'America” e Donovan, dedicandosi con passione alla sua difesa, si accaparra rapidamente la seconda posizione nell'infelice classifica, sotto lo sguardo critico della moglie (Amy Ryan) e del Paese tutto. Cinque anni dopo, la CIA chiede all’avvocato di fare da mediatore per conto degli Stati Uniti in uno scambio tripolare a Berlino: gli USA restituiranno all’URSS Abel, ricevendo da loro Francis Gary Powers (Austin Stowell) - il pilota di un U-2 abbattuto nei pressi degli Urali nel corso di una ricognizione segreta del territorio sovietico - e ottenendo allo stesso tempo anche lo studente americano Frederick Pryor (Will Rogers), che la DDR teneva prigioniero. Con il suo ultimo film Spielberg affronta un tema senza dubbio attuale: l’importanza del dialogo e della diplomazia in un momento storico di tensione e difficoltà. «Noi dobbiamo avere quel dialogo che i nostri governi non possono avere». Risulta emblematica questa frase, pronunciata nel corso di uno degli incontri segreti di Berlino Est da un Donovan che assurge a paladino della legalità e della giustizia. È un eroe, questo, tipicamente spielberghiano: viene mostrato in tutta la sua umanità. Senso di inadeguatezza e paura compresi. Il ponte delle spie è, come c’era da aspettarsi, un’opera con tutte le carte in regola. La sceneggiatura viene firmata dai fratelli Coen, insieme a Matt Charman (Suite francese) e anche la regia si rivela impeccabile. Lunghi piani sequenza, atmosfere noir e musiche molto classiche si sposano in un thriller che funziona come un perfetto meccanismo a incastro, ben attento a raccogliere ciascuno dei molteplici spunti che fin dall’inizio dissemina lungo il percorso. Eppure si riscontra un notevole squilibrio tra la prima e la seconda metà: quest’ultima, in particolare, improntata a un marcato americanismo che in alcune scene risulta eccessivo. Come quel paragone un po’ troppo scontato tra le immagini dei ragazzi uccisi nel tentativo di superare il muro tra le due Berlino e i bambini newyorkesi che saltano un muretto passando da un giardino all’altro mentre giocano in libertà. La tensione non esplode mai fino in fondo e il film, mancando di mordente, finisce per posizionarsi un po’ al di sotto rispetto alle aspettative suscitate dai notevoli elementi di partenza.