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Garage

19/06/2009 10:00

Giuseppe Salvo

Recensione Film,

Garage

Esistono film che nascono senza le ingombranti pretese di grandi produzioni, senza le velleità intellettuali e impegnate che spesso strumentalizzano il messaggi

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Esistono film che nascono senza le ingombranti pretese di grandi produzioni, senza le velleità intellettuali e impegnate che spesso strumentalizzano il messaggio e ne disturbano, con la loro mole cerebrale, la fruizione; ma sono opere che attraverso la loro semplicità, e grazie ad essa, si fanno veicolo di piccoli mondi, percorsi da clochard incompresi e disadattati, vessati dallo sguardo inquisitorio di una civiltà che sembra prendersi troppo sul serio, e non ha occhi per accorgersi della propria frustrazione e avanzata decadenza.


Josie ha sempre lavorato in una stazione di servizio fuori città. Passa le sue giornate aspettando i pochi automobilisti che si fermano a rifornirsi di benzina e a scambiare due chiacchiere nei pochi minuti di sosta. Va in città a svolgere commissioni per conto del suo principale, oppure la sera a bere qualche bicchiere nell’unica, svuotata birreria del paese. Josie è un uomo ingenuo, credulone e sprovveduto, innocuo agli occhi della gente, e per questo da molti considerato con affetto paterno, da altri schernito. Nella sua vita, un giorno, irrompe un adolescente, affiancatogli durante il weekend per aiutarlo nel lavoro; il ragazzo, che a differenza dei suoi coetanei è il solo a trattare Josie alla pari, della solitudine di quest’ultimo diventa elemento riempitivo, insieme al quale condividere l’aria del tramonto nel dopo lavoro, tra qualche lattina di birra e sparute parole a rompere il silenzio condiviso.


L’incedere dell’ultimo film di Lenny Abrahamson segue il passo rettilineo e imperfetto del suo protagonista: giunge con la stessa umiltà, la medesima trasparenza, che è quella del verdegrigio d’Irlanda, dei paesi dimenticati, di binari uggiosi che sembrano abbandonati da sempre, e per sempre percorsi da esistenze solitarie. Josie è un emarginato, relegato ai confini della società ma necessario ai suoi equilibri, e in un paese disperato e marcio come quello messo in scena da Abrahamson, è posto al centro degli sfoghi emotivi e delle inespresse frustrazioni di tutti coloro che se lo trovano davanti. Ma la condizione di questo illividito bontempone emerge dal torpore crepuscolare che lo circonda attraverso la propria personale e dignitosa dimensione lavorativa, pur nella consapevole tragedia della sua alienazione ed esclusione sociale. Il garage del titolo ne diventa metafora, col suo aspetto in rovina, pronto ad essere “sacrificato”, spazio quotidiano nel quale ognuno si ferma solo se di passaggio – perché fuori mano – o se il rifornimento più conosciuto è chiuso, e nel quale non si ha il tempo per notare le migliorie apportate perché in fondo assorbite dalla mediocrità e dalla tracotanza di chi le giudica. Il tono pacato del messaggio, scritto a chiare lettere e scandito da speranze e disillusioni cicliche, si arena con vento di bonaccia fino alla fine, in cui i diversi, tagliati fuori dai (legittimi) privilegi della vita – l’amore, l’amicizia, la felicità – ne avvertono lo smacco e da questo si lasciano sopraffare, abbracciando, loro stessi, i principi di una selezione – come quella operata dai padroni tra cani di razza e bastardi – che li scarta tutte le volte.


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