Micah (Micah Sloat) e Katie (Katie Featherston) sono una giovane coppia della borghesia americana, trasferitasi in un appartamento che sembra celare inquietanti presenze manifeste nel cuore della notte. Le immagini e i rumori tormentano Kate, così Micah decide di procurarsi una videocamera e un registratore di suoni allo scopo di documentare tutto quello che accade, soprattutto quando i due dormono in camera da letto. L’espediente all’inizio sembra risolversi in un divertente siparietto, ma con il passare del tempo l’occhio impudico della macchina da presa porta allo scoperto, all’interno dell’abitazione, il verificarsi di inquietanti fenomeni paranormali… È tutta qui la storia di Paranormal Activity, horror indipendente diretto dall’israeliano Oren Peli, a tal punto che bastano poche righe per riassumerla, visto che le immagini sullo schermo aggiungono davvero poco. Ciò come conseguenza del fatto che già molti mesi prima della sua uscita il film non ha fatto altro che lanciare proclami: il passaparola sulla rete è stato massiccio, accompagnato da slogan come “Il nuovo Blair Witch Project”, “Il film più terrificante di tutti i tempi” e così via, fino alla leggenda metropolitana che vorrebbe il regista Steven Spielberg abbandonare la sala a metà proiezione perché terrorizzato. Viene da pensare che sia stata architettata solo una gigantesca operazione di marketing, stavolta sì uguale a quella della strega di Blair ma svuotata del suo stesso sostrato mitologico. Lì eravamo in qualche modo preparati ad assistere alla terribile escursione nei boschi dei tre ragazzi, attraverso una linea direttiva e una sintassi filmica che avrebbe ben presto fatto scuola. L’unica cosa che si riesce a percepire nel lavoro di Peli è il senso claustrofobico della routine quotidiana della coppia protagonista, snervata da incursioni paranormali che incedono nella loro già triste esistenza. Da un punto di vista tecnico, oltre all’eccessivo uso della macchina a mano - che sporca insistentemente (ed eccessivamente) l’immagine - riprendere la stessa camera da letto per più di venti notti di fila, con manifestazioni pressanti del sedicente “demone”, è davvero poca cosa se si presenta come unico elemento estetico su cui reggere il film. Anche perché, escluso l’angosciante exploit del finale, negli ottanta minuti precedenti si ha la sensazione di attendere il concretizzarsi di qualcosa in grado di motivare ontologicamente l’horror di Peli. Forse riprendere la camera da letto nell’arco di una sola notte, magari attraverso un lungo piano sequenza (come in Sleep di Andy Warhol) dove poter sguinzagliare presenze demoniache e ombre infernali, avrebbe spaventato di più. Ma oltre ad una regia carente, Paranormal Activity non convince nemmeno quanto a struttura del plot e dei personaggi. L’idea della coppia che vive in una casa infestata da un demone è tra le più polverose del filone. Per non parlare dell'atteggiamento curioso dello studioso di fenomeni paranormali: in un primo momento cerca di filosofeggiare sull’accaduto, ma quando la seconda volta torna nella casa non fa in tempo a superare la soglia che subito scappa terrorizzato. Certo riproporre la performance di Max Von Sydow (il Padre Merrin di William Friedkin) sarebbe stato quantomeno azzardato, ma in tal modo viene sottratto il solo elemento capace di incuriosire, lasciando in balìa di questa coppia che fatica a comunicare e che satura ogni inquadratura con la propria ingombrante presenza. Verrebbe da chiedersi come abbia fatto questo film a sbancare i botteghini statunitensi, e a cosa siano serviti sedicimila euro di budget per un prodotto concepito tra le mura domestiche. C’è il sospetto che si sia cavalcata troppo l’onda del periodo (vedi •Rec) senza fare il minimo sforzo per uscire da una rappresentazione convenzionale. Quanto a quelli che credono solo nella forza delle idee, queste ultime non bastano se sviluppate in una narrazione inefficace e poco coerente.