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La casa delle estati lontane

13/06/2016 11:00

Riccardo Tanco

Recensione Film,

La casa delle estati lontane

1995: le sorelle Cali (Géraldine Nakache), Darel (Yael Abecassis) e Asia (Judith Chemla), trasferitosi in Francia da piccole, tornano in Israele dopo molti anni

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1995: le sorelle Cali (Géraldine Nakache), Darel (Yael Abecassis) e Asia (Judith Chemla), trasferitosi in Francia da piccole, tornano in Israele dopo molti anni per completare la vendita della vecchia casa dei genitori, ormai in disuso. Qui hanno occasione di ritrovarsi, mentre il paese è in uno stato d'agitazione dovuto agli imminenti accordi di pace voluti dal primo ministro Yitzhak Rabin.


Uscito nelle sale francesi a gennaio dello scorso anno e presentato in anteprima italiana al Festival dei Diritti Umani nel 2016, La casa delle estati lontane (Rendez-vous à Atilt), è l'opera prima della regista Shirel Amitay, dopo una carriera da regista di seconda unità. La Amitay sceglie la strada della commedia drammatica e agrodolce, provando a stabilire un equilibrio narrativo tra un sorriso che deve essere trattenuto e la serietà mai completamente abbracciata. Si guarda al dramedy malinconico e al cinema d'autore europeo, di fattura media.


La casa delle estati lontane ragiona sull'importanza di staccarsi dal passato e sulla capacità, invece, di non separarsene. La casa al centro della storia, quindi, diviene simbolo di una vita che si vuole abbandonare o cercare di salvare. Questo elemento, che pare essere lo stimolo più importante che il film ha da offrire, viene però abbandonato in favore di un prevedibile romanzetto malinconico sul rapporto tra sorelle e sui conflitti e rancori reciproci; con una sceneggiatura che si limita a chiudere i tre personaggi principali nelle loro ovvie caratteristiche. Il problema principale di La casa delle estati lontane sembra quello di non dover accettare i propri limiti e di cercare soluzioni per sviare un racconto che si fa via via sempre più canonico. Come ad esempio la scelta forzata e ossessivamente ripetuta di dare all'opera uno slancio onirico/sognante, con la pressante figura del fantasma dei genitori che ingombra inutilmente la scena. E in una confusione generale, che si esemplifica nell'assenza di occhio attento al risultato totale, la Amitay si gioca la carta della realtà storica, provando a legare Storia vera e finzione per diventare apologo superficiale su Israele. L'impressione è di assistere a un'opera che non sappia che strada prendere; come dimostra un finale che cambia ulteriormente verso e vita verso un banale inno alla speranza e alla vita.


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