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Safari

05/09/2016 10:00

Federica Cremonini

Recensione Film,

Safari

Una vita da bracconieri, il docufilm di Ulrich Seidl fa discutere

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Presentato Fuori Concorso alla 73esima edizione del festival di Venezia, Safari è il titolo dell’ultimo documentario di Ulrich Seidl: si tratta di un titolo destinato a far discutere, ma è cosa nota quando si parla del regista austriaco, celebre per le sue attitudini provocatorie.


Stavolta la sua lente si sposta nel bel mezzo della Savana africana, dove vive una famiglia di bracconieri (austriaci anche loro) che esercitano la propria professione in Namibia, disturbati solo dall’onnipresente macchina da presa di Seidl. Una macchina da presa, quella di Safari, che non presenta grandi novità rispetto alla tradizione “seidleiana”: stile documentaristico, piani fissi su turisti intenti a spalmarsi a vicenda la crema solare, a discutere della tenera carne d’antilope o, ancora, a elencare il prezzario di bestie ed erbe. La macchina da presa in movimento copre, invece, gran parte dei minuti del film ed è decisamente più presente di quanto non lo fosse nelle precedenti opere del regista: stavolta Seidl segue senza sosta i cacciatori, si apposta alle loro spalle mentre trattengono il respiro per trafiggere impala e giraffe, si sofferma sui loro volti nell’attesa che sparino il colpo fatale e decide di bloccarsi solo nel momento in cui questi spietati personaggi siedono sotto le fiere teste imbalsamate che troneggiano sulle pareti delle proprie stanze, e cominciano a parlare. Parlano di calibri, di armi, di mirini, della difficoltà di sparare a un leopardo rispetto a un leone perché «di leoni ce ne sono ancora tanti», di ferite e dei fori vincenti sul corpo di un animale, di carne e cibo, della necessità della caccia come mezzo fondamentale e salvaguardia per la continuità di una specie animale, della basilare differenza fra «uccidere» e «abbattere».


E in un contesto di carne esanime e cadaveri, figuriamoci, Seidl non si fa di certo mancare la provocazione visiva fine a se stessa, stomachevole e spaventosa, di una zebra scuoiata e una giraffa fatta a pezzi con l’ausilio di machete e altri attrezzi preposti all’uso, e lo fa non risparmiandosi neppure un dettaglio. Dalla bolla di sangue che pulsa dal piccolissimo buco palpitante sul corpo, al rumore del coltellaccio che dentella le ossa craniche della belva e all’onda di sangue che trabocca da una testa mozzata e imbratta il pavimento sudicio di una fetida stanza, forse un seminterrato (e il segreto regno sotterraneo dei tipi umani di Im Keller appare improvvisamente più vicino). Eppure, sembra esserci davvero di più: perché c’è qualcosa che ci mostra un Seidl più vicino a questi bracconieri: li osserva, silente, senza svelare le proprie emozioni, senza rivelare le proprie impressioni, e fin qui nulla di nuovo. Tuttavia, è davvero difficile affermare che lo sguardo del regista, che consente a queste persone (anzi, le invita a farlo) di esporre proprie teorie e idee sulla vita, sulla morte, sull’umanità e sul fardello che rappresenta in quanto vertice della piramide e anello superfluo di una catena che solo lei ha il potere di modellare, sia uno sguardo disinteressato, cinico, distaccato. Perché, alla fine della visione, questo sguardo disinteressato e gelido è riuscito a suscitare dubbi di rilevante peso anche nel più sprezzante dello spettatore, che nel frattempo è stato colpito dall’arma da fuoco che è il cinema di Ulrich Seidl, e non può più negarlo.


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