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Monolith

15/08/2017 11:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

Monolith

L’ennesima prova che il cinema italiano di genere sta tornando prepotentemente di moda

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Che il cinema di genere italiano si stia rivitalizzando negli ultimi anni, sia in tv che sul grande schermo, ne avevamo già parlato {a href='https://www.silenzioinsala.com/articoli/1816/nuraghes-di-mauro-aragoni-il-ritorno-del-cinema-di-genere-ma'}qui{/a}. Uno degli "attori" determinanti per questa iniezione di linfa vitale nel cadavere che per quasi 20 anni ha rappresentato il nostro cinema, è stato senza dubbio Sky. La pay-per-view ha infatti creduto per prima nella possibilità di poter realizzare prodotti nostrani competitivi anche (e soprattutto) a livello internazionale. Nel 2008 la serie Romanzo Criminale ha fatto da apripista, seguita qualche anno dopo da un’altra produzione a opera di Stefano Sollima,Gomorra, della quale aspettiamo trepidanti la terza stagione. E in attesa che trapeli qualche nuovo dettaglio per quanto riguarda l’annunciata serie su {a href='https://www.youtube.com/watch?v=O4zmzfSpRKQ'}Diabolik{/a}, prevista per il prossimo anno, è curioso notare come Sky stia instaurando gradualmente una collaborazione con il colosso del fumetto italiano Sergio Bonelli Editore. Durante l’edizione 2015 del Lucca Comics&Games vennero infatti annunciati due progetti nati da questa partnership: il primo fu la divertente (ma passata un po’ troppo in sordina) sit-com in tecnica mista Editor is in: 11 episodi in cui i più famosi eroi bonelliani confessavano i propri malumori al loro editor come se fosse uno psicologo; il secondo fu un progetto cross-mediale che univa fumetto e cinema partendo da un’idea di Roberto Recchioni, nuovo Re Mida della casa di fumetti milanese (si specula sul futuro di Dylan Dog, ora che i diritti di sfruttamento sono tornati in seno alla Bonelli possiamo sperare in un prodotto ispirato all’Indagatore del’Incubo) ma guai a parlare di “adattamento”. Infatti, sebbene il fulcro della storia sia il medesimo, film e graphic-novel sono stati sviluppati parallelamente, ognuno mantenendo caratteristiche proprie e più congrue al linguaggio utilizzato. Un po' quello che è accaduto a The Walking Dead o Il trono di spade, che stagione dopo stagione sono diventati sempre più indipendenti dalla loro fonte d’ispirazione sino a procedere con una storia totalmente slegata dalla loro controparte cartacea.


Monolith è l’automobile ipertecnologica più sicura al mondo, una sorta di bunker su ruote governato dal computer di bordo Lilith (un nome poco rassicurante se si pensa alle sue radici bibliche, ma che può essere inteso come omaggio all’omonimo personaggio bonelliano creato da Luca Enoch). Sandra, ex pop star ritiratasi dalle scene, deve raggiungere Los Angeles per la festa del 4 Luglio insieme al figlio David. Un incidente con un cervo la costringe a scendere dall’auto, bloccandola fuori dal veicolo nel mezzo del deserto, con il figlio intrappolato nell’abitacolo.


Presentato in anteprima mondiale lo scorso agosto al FrightFest di Londra, il film si basa su di un incipit molto semplice: una sola situazione che si articola per 90 minuti scarsi sino alla propria soluzione, un po’ come accadeva in Buried - Sepolto o in Cujo, due storie alle quali Monolith deve molto. Il lato interessante di questo tipo di narrazioni è vedere come regia e sceneggiatura riescano a tenere alta la tensione. Monolith in questo senso procede per accumulo di idee: c’è il discorso della tecnologia alla Black Mirror che è sia alleata sia minaccia, pronta a rivoltarsi contro l’uomo alla sua prima distrazione. C’è il dramma della protagonista che ama e cerca di salvare suo figlio, ma al contempo non accetta la sua nuova vita come donna di casa e madre (a questo proposito è interessante ma poco sfruttata la metafora dell’automobile come meccanico utero materno). A dominare il tutto vi è infine il tema della sopravvivenza dell’uomo contro la natura, rappresentato dalle sfide che Sandra deve affrontare: la notte nel deserto, un branco di lupi, la necessità di trovare armi e viveri.


Plauso d’onore quindi al regista Ivan Silvestrini (che si è fatto le ossa con le web-series, qui è alla sua terza regia di un lungometraggio) che riesce a confezionare un film asciutto ed essenziale, fatto di sentimenti primordiali e svuotato da qualsiasi lungaggine che avrebbe appesantito la storia. In questo senso lo scarso minutaggio è una carta vincente. Il ritmo è sempre incalzante e teso. La regia riesce a enfatizzare con semplici inquadrature statiche – sembrano tavole di un fumetto e sarebbe interessante capire quanto l’opera cartacea è servita come riferimento visivo al regista – il senso di desolazione e impotenza della protagonista.


La produzione e le riprese di Monolith si sono svolte nel deserto dello Utah potendo contare su di un cast internazionale: insomma, una sorta di ritorno agli anni ‘70 per il nostro cinema, quando le produzioni imponevano di girare in lingua anglofona per poter meglio vendere i film sul mercato estero (è accaduto anche a Mine, pellicola italiana uscita lo scorso autunno, anch'essa con un protagonista bloccato nel deserto). E Monolith è proprio questo: un film dal taglio fortemente internazionale che costituisce l’ennesima prova che il cinema italiano di genere sta tornando prepotentemente di moda. Peccato che le case di distribuzione non siano d’accoro. La dimostrazione? Il film è in sala a partire dal 12 di agosto: se non è un tentativo di sabotaggio questo.


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