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XIII emendamento

11/03/2017 12:00

Lorenzo Bagnoli

Recensione Film,

XIII emendamento

Un documentario provocatorio e appassionante, che racconta la nuova schiavitù della popolazione nera USA

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Il passaggio più importante del XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti recita: «Né schiavitù o servitù involontaria, eccetto che come punizione per un crimine per cui il soggetto dovrà essere debitamente incarcerato, esisterà sul suolo degli Stati Uniti, o in ogni altro luogo». Questo provvedimento, adottato nel lontano 1865, è considerato fin da allora uno dei pilastri sui quali si fonda l'intera civiltà occidentale. La regista Ava DuVernay, la stessa che ha firmato nel 2014 Selma - La strada per la libertà, svela nel suo documentario XIII emendamento quale sia il lato oscuro che si nasconde dietro questa conquista civile. Un lato oscuro celato proprio sotto quell'inciso, innocuo solo all'apparenza: «Eccetto che come punizione per un crimine». Candidato agli Oscar 2017 come Miglior Documentario, attraverso le semplici voci di esperti e testimoni, e di una raffinata quanto diretta elaborazione grafica dei dati, XIII emendamento sbatte in faccia agli spettatori una tesi radicale, a cui si arriva attraverso un sillogismo. L'America è la più grande fabbrica di criminali del mondo; tra questi, la maggior parte sono neri. I criminali, come previsto da quel famoso inciso, possono essere condannati ai lavori forzati come fossero degli schiavi. Ecco allora che gli afroamericani continuano a essere schiavi, anche nell'America del ventunesimo secolo. Questo provocatorio, ma limpido, ragionamento è condotto attraverso un montaggio serrato a cui ci si deve abituare sin dai primi 10 minuti, in cui gli intervistati si succedono uno dopo l'altro senza neanche il supporto dei sottopancia a presentarli.


XIII emendamento racchiude in sé tutti i motivi per cui, nonostante l'amministrazione appena trascorsa di un afroamericano come Barack Obama, negli Stati Uniti la questione razziale sia ancora una delle principali cause delle tensioni sociali che attraversano il Paese. Racconta perché Black Lives Matter, il movimento antirazzista cresciuto attraverso i social network tra le comunità afroamericane, è diventato sempre più importante. Il disprezzo per i neri è una chiave di lettura di tutta la storia degli Stati Uniti, politica e non solo. Quest'idea “dell'uomo nero” violento, incivile e pericoloso dirompe nella cultura popolare fin dai tempi di Nascita di una nazione, uno dei primi film della storia del cinema, diretto nel 1915 da David Griffith. La parabola xenofoba dell'America comincia con il cavaliere incappucciato che campeggia sul manifesto del film di Griffith, raggiunge il suo momento più buio con il Ku Klux Klan e prosegue oggi con gli omicidi – sempre più spesso impuniti – di centinaia di ragazzi neri. Su questo agghiacciante retro-pensiero, che permea in modo ineluttabile la cultura americana, si innesta il processo di criminalizzazione che serve da pretesto per costruirsi un nemico. Non c'è presidente americano che non ne abbia abusato. Primo Richard Nixon, l'inventore della “War on drugs”, la guerra alla droga: invece che cercare di curare una malattia sociale come la tossicodipendenza, ha trasformato in fuorilegge coloro che la consumavano (lasciando, per altro, impuniti i grandi trafficanti); i neri più di chiunque altro. Peggio di lui ha potuto solo Ronald Reagan, altro presidente sul quale si concentra il film.


Ogni volta che durante il racconto qualcuno pronuncia la parola criminale, questa esplode sullo schermo, bianca su sfondo nero. Il suo ritorno così insistente rende bene - anche sul piano grafico - l'ossessione per il principio di law&order (legge&ordine), che ha creato lo spaventoso numero di carcerati negli Stati Uniti. Dal 1970 a oggi, la popolazione carceraria americana è cresciuta a un tasso vertiginoso fino a raggiungere nel 2014 i 2,3 milioni. Gli afroamericani, il 6,5% della popolazione, ne rappresentano oltre il 40%. Un nero americano su tre rischia di finire in prigione almeno una volta nella sua vita. Se è vero che il sistema fabbrica criminali, allora ci vogliono carceri dove “stoccare” il prodotto di questa industria. Dato il numero di persone coinvolte, il business è particolarmente redditizio: vale 1,7 miliardi di dollari. È gestito da industrie private, che suggeriscono leggi e provvedimenti ai decisori politici di ogni colore, attraverso la loro lobby di riferimento, ALEC. In questo punto del film qualcuno troverà il ragionamento un po' complottista, per quanto, come in una vera inchiesta d'altri tempi, XIII emendamento chiama a rispondere alle accuse sia un rappresentante della lobby, sia alcuni politici. Sul piano giornalistico, il racconto è encomiabile: le semplificazioni, necessarie in una materia tanto complessa, non sono mai banalizzanti. Anche a livello storico, il film è destinato a rimanere nella memoria come un profetico campanello d'allarme di Ava DuVernay, ancora prima della vittoria di Donald Trump. È evidente che l'America viaggia sempre più ostinatamente verso la criminalizzazione delle minoranze, che siano neri, ispanici o immigrati, al preoccupante grido di Make America great again.


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