Un gruppo di psicologi, criminologi e sociologi (con tirocinanti al seguito) studiano il comportamento criminale nel carcere di Bollate. Paolo Giulini, Francesca Garbarino, Luca Bollati, Luigi Colombo, Maritsa Cantaluppi e Andrea Scotti collaborano con l’obiettivo di indagare ed esorcizzare il crimine comune ai membri di un circoscritto gruppo di detenuti: violenza sessuale. Lo sguardo impietrito di Claudio Casazza si accuccia ora dietro le sbarre della struttura carceraria, ora alle spalle di un criminologo. Uno per volta, i detenuti rispondono alle domande degli esperti e raccontano le loro sensazioni e la loro colpa, non in tutti casi sentita come tale. Solo alcuni, pur mantenendo le distanze da un sincero rimorso, prendono realmente coscienza della brutalità delle azioni commesse, molti si ritengono ingiustamente condannati e colpevoli solo “a metà” perché considerano la vittima come un complice. Altri ancora infine si chiedono come stiano le vittime e in che modo la violenza subita abbia cambiato loro l’esistenza. Alcuni dei detenuti sembrano pentiti e improvvisamente assaliti da un sentimento di ripugnanza verso essi stessi. Lasciano scivolare giù le lacrime, coscienti dell’incontrollabile mostro che alberga in loro. I volti vengono puntualmente occultati, ma le storie, comprese le più raccapriccianti, sono descritte senza alcuna censura, talvolta con una imperturbabilità disarmante da parte dei narratori. Una tale freddezza si riflette inevitabilmente sulla regia del documentario: nessun accompagnamento musicale né il sussurro di una voce fuori campo, niente acrobazie stilistiche e abbellimenti di alcun tipo. Solo riprese fisse intervallate da un continuo andirivieni di campo e controcampo, intervistatore e intervistato. Talvolta, l’occhio del regista, affaticato, si isola in un angolo e riprende a lungo gli scorci della struttura carceraria, ritirato come in un momento di intima riflessione. La regia di Claudio Casazza ha un’impronta volutamente asciutta e sentimentalmente sterile. Un altro me è la video cronaca di un’indagine scomoda e complessa, si guarda come si legge un articolo di giornale o un approfondimento su una rivista: in silenzio e senza pigrizie extradiegetiche. E d'altronde non esiste un modo più diretto di raccontare simili crimini.