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Mary e il fiore della strega

25/09/2018 11:00

Maurizio Encari

Recensione Film,

Mary e il fiore della strega

L'esordio nel cinema d'animazione dello Studio Ponoc

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Mary sta trascorrendo la fine delle vacanze estive nella casa di campagna della prozia. Il luogo non offre molte occasioni di divertimento e la giovane non ha stretto legami con nessun coetaneo della zona, almeno finché non conosce il figlio dei vicini, Peter. Un giorno, durante un picnic, Mary si imbatte in una coppia di gattini, Tib e Gib, e dopo averli seguiti finisce in una radura dove trova, nascosta dall'erba folta, un bellissima pianta dai fiori azzurri. Quando l'indomani uno dei due mici scompare nel nulla decide di cercarlo e, tornando nella boscaglia, si imbatte in un'antica scopa che ben presto, a contatto con i petali luminosi, si rivela dotata della capacità di volare. A bordo della scopa, la ragazzina finisce all'Endors College, un castello magico situato tra le nuvole, gestito da Madama Mumblechook e dal Dottor Dee, un bizzarro professore che si occupa di magia metamorfica. Scambiata per un'aspirante strega, Mary capirà ben presto l'importanza delle proprie azioni e si troverà a vivere una fantastica avventura alla scoperta di se stessa.


Il primo film dello Studio Ponoc, nel quale sono confluiti molti membri del blasonato Studio Ghibli, è tratto dal romanzo per ragazzi La piccola scopa della scrittrice britannica Mary Stewart. E l'ambientazione celtica è già evidente nei paesaggi che fanno da sfondo alla vicenda, con un caleidoscopio di colori vivaci che brilla nel complementare contrasto con le campagne immerse nella nebbia, primo gioco degli opposti, già a livello visivo, tra i tanti offerti dai cento minuti di visione. Così come la battaglia emotiva, che confluisce nel percorso di crescita, che caratterizza la personalità della protagonista.


Mary e il fiore della strega è un film che ha paura di diventare grande. Si affida troppo ai canoni archetipici, di design e di storytelling che hanno fatto la fortuna della società di Miyazaki: dal character design dei personaggi umani e antropomorfi, fino alla fondamentale tematica ambientalista, che si rivelerà essere poi il punto predominante dell'intero racconto. Impossibile non notare citazioni e rimandi a classici come Principessa Mononoke (1997) e Il castello errante di Howl (2004). Il risultato, armonioso dal punto di vista artistico e capace di emozionare un pubblico di grandi e piccini, è evidentemente castrato dai paragoni, più o meno azzardati. La stessa sceneggiatura, pur rispettando abbastanza fedelmente l'opera originaria, non è esente da ridondanze, con alcuni eventi tirati troppo per le lunghe e un finale che, per mettere in sfoggio tutta l'abilità tecnica dell'animazione, rischia di essere gratuitamente spettacolare senza una reale necessità. La parte relativa alla magia, che avrebbe dovuto porsi quale elemento centrale dell'intero narrato, affievolisce in secondo piano lasciando spazio a una platonica love-story adolescenziale dove la fantasia e l'assunzione delle proprie responsabilità diventano fattori catartici e di riscatto per una giovane ragazzina dai capelli rossi pronta a scoprire se stessa nel più inimmaginabile dei modi.


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