Dopo la morte di sua madre, Aja, giovane illusionista di Mumbai, decide di partire per Parigi con l’intento di rifarsi una vita ed esplorare il nuovo mondo. Magari riuscendo persino a incontrare il padre mai conosciuto. Questo viaggio rappresenterà per il ragazzo la svolta: le (dis)avventure vissute lontano da casa gli permetteranno di affinare ogni qualità illusoria. Ma la vera e propria magia si compie quando viene fuori la voglia e il coraggio di rimettersi in gioco. L’incredibile viaggio del fachiro è tratto dall’omonimo romanzo di Romain Puertolas, scrittore francese, che recita anche un cameo nel corso del film. L’opera si basa su un pretesto, quello del viaggio, che porta un ragazzo a riscoprire se stesso. Aja, protagonista della vicenda, viaggia così come viaggia la vita: senza ritorno e, quasi sempre, senza una meta ben definita. E anche il film attraversa località in lungo e in largo con l’intento di scavare nel vissuto di un uomo che incarna una generazione, quella costretta a migrare verso un domani incerto che resta comunque migliore della quotidianità. L’illusionista va in cerca di suo padre, dopo aver perso la madre, per ritrovare il bandolo della matassa intricata che è stata la sua esistenza e cercare di mettere un punto. La componente dell’illusionismo gioca a favore di un film che ha un buon ritmo (come del resto il romanzo da cui è tratto) e che mette in relazione diverse culture e altrettanti modi di pensare. Ritroviamo le atmosfere di The Millionaire, nel protagonista indiano – eroe quasi per caso – in grado di farsi voler bene da chiunque; resta l’approccio del family movie, con un taglio sferzante alla Borat. Un fritto misto di approcci socio culturali che incuriosisce la platea provocando, a fasi alterne, interrogativi in merito alla credibilità di taluni pregiudizi che solitamente vengono alimentati. Si accendono inoltre i riflettori sul concetto di turista ed emigrato: le due cose, abbastanza spesso, tendono a sovrapporsi. Quest’opera, tra il serio e il faceto, sottolinea garbatamente come determinati “viaggi” non vengano scelti ma imposti da una condizione di vita svantaggiata e sfavorevole. Ogni suggestione è alimentata da colori, suoni e caratterizzazioni che abbiamo riscontrato in altre produzioni sull’asse indoeuropea: già Sognando Beckham aveva aperto la strada a un filone che porta in Occidente l’occasionale balletto bollywoodiano. Stavolta in primo piano c’è la magia che, al pari di una qualsiasi altra passione, apre i cuori e abbatte ogni ostacolo. Ken Scott prende spunto da qualche situazione realmente vissuta per stravolgerla e giocare con le conseguenze, inseguendo un’iperbole scenica che risulta credibile dinnanzi alla forza dell’illusione e di un montaggio ben organizzato.