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Vox Lux

06/09/2018 10:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

Vox Lux

Vox Lux, secondo lavoro di Brady Corbet dopo il bellissimo L’infanzia di un capo

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Alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia arrivano anche Natalie Portman e Brady Corbet per presentare Vox Lux, secondo lavoro del regista (dopo il bellissimo L’infanzia di un capo del 2015) in concorso al Festival. Siamo nel 1999 quando Celeste (Raffey Cassidy), a soli 14 anni, è protagonista di una tragedia: la strage compiuta da un suo compagno di scuola, dove hanno perso la vita diversi ragazzi. Sopravvissuta, viene chiamata a parlare all’evento di commemorazione e decide di mettere in musica le sue parole, cantando una toccante canzone scritta assieme alla sorella Eleanor (Stacy Martin). Ripresa e resa virale dalle emittenti tv, l’interpretazione di Celeste diventa oggetto di attenzioni di un manager (Jude Law) che le propone una carriera musicale. Inizia così il lungo cammino della protagonista che, apparentemente, risorge dalla tragedia fino a trasformarsi in pochi anni in una giovane pop star.


Vox Lux è il nome del tour che Celeste, ormai adulta, impersonata da Natalie Portman, porta in giro per il mondo. Celeste vive un’epoca dolorosa, quella del terrorismo, che passa soprattutto dall’Undici Settembre. Le ferite, quelle originali, possono essere coperte con trucco e paillettes ma rimangono sotto la superficie e dilaniano la carne, rendendo per lei difficile gestire ogni momento della propria vita. La pellicola non vuole parlare di una pop star ma di un’intera generazione ferita, che convive con l’affermazione schizofrenica del terrorismo. Vox Lux è una storia dark e colma di terrore, con elementi psichedelici che contribuiscono anche visivamente a creare un immaginario pieno di tensione, che tiene il ritmo della pellicola. Costruito sotto forma di racconto, con la voce narrante di Willem Dafoe, il attraversa il dramma personale di una giovane ragazza fino a farlo diventare universale: il corpo, offeso dalle pallottole che ha accolto in gioventù, cresce più veloce del previsto e il casting di Natalie Portman - che già nel bellissimo Il Cigno Nero ha fatto del corpo un linguaggio universale - sembra essere la mossa giusta. Celeste contiene in sè tutto il dolore delle vittime, e con la sua musica (tra l’altro curata da Sia) è come se silenziasse le urla devastanti di paura, distraendo la mente e il suo pubblico.


A Star is Dead, Preludio, Atto 1 e Finale. Passando per l’Epilogo, che contiene in se Passato, Presente e Futuro. Anche la struttura narrativa, così arrogante e confusa, contribuisce a creare una manipolazione. E ogni elemento narrativo è così pregno di simbolismo da creare forte attesa verso l’epilogo. Dal primo attentato, a opera di un ragazzino compagno di scuola, che muore assieme agli altri togliendosi le lenti a contatto. All’Undici Settembre, momento in cui l’innocenza di Celeste, già saccheggiata, viene colpita a morte allo scoprire che la sorella ha una relazione col suo manager. Fino all’ultimo attentato del film, quello in una spiaggia in Croazia a opera di una banda che indossa le stesse maschere usate dalla protagonista per i suoi video. In questo film c’è tanto di Brady Corbet, da rimanere accecati.


Il rischio è quello di perdersi elementi o non riconoscersi affatto. Perché indubbiamente il senso della pellicola è più caro a chi, come la generazione nata intorno al 1986, rischia di smarrire la propria spensieratezza per la paura di vivere un concerto o semplicemente bere una birra in un locale. Ci troviamo davanti a un racconto quasi horror, in cui in realtà gli elementi non sono mostrati ma incombenti. E c’è quel patto, col diavolo, che costringe la protagonista a soffocare in un tunnel: la consapevolezza che i margini tra terrorismo e show business possano essere sempre più labili. Non volendo soccombere ai suoi carnefici, pur sapendo che essere una profetessa del pop possa renderla complice, Celeste diventa bersaglio cristologico (bellissima la scena in cui veste un costume con una croce) da parte dei giornali, da parte di chi la strumentalizza.


La prima parte del film è più coerente del secondo atto, in un andamento ellittico che ha senso solo verso il finale e in cui la lunga e meravigliosa performance della protagonista è una morte del Cigno carica di tensione; da un momento all’altro ci si aspetta che qualcosa possa cambiare per sempre. Pieno di metafore che spaziano dalla religione alla filosofia, Vox Lux è la schizofrenia di un millennio portata con coraggio sul grande schermo.


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