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Mirai

16/10/2018 11:00

Marcello Perucca

Recensione Film,

Mirai

Un anime realista che ruota attorno al tema dell’infanzia e della famiglia

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Mamoru Hosoda, regista e disegnatore giapponese di anime, realizza Mirai, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs dell’ultimo Festival del cinema di Cannes. Come già accaduto nei suoi precedenti La ragazza che saltava nel tempo e Wolf Children, il film ruota attorno al tema dell’infanzia e della famiglia. In questo caso, il punto di vista è quello di Kun, un bambino di quattro anni che, alla nascita della sorellina Miraï, inizia a soffrire di forti crisi di gelosia vedendo i genitori concentrare le loro attenzioni soprattutto sulla neonata. Giocato molto sui salti temporali, in bilico fra la dimensione realistica e quella fantastica, il film di Hosoda dà il meglio di sé proprio in questi ultimi casi: quando Kun, per affrontare la disperazione che lo affligge, si proietta in un mondo immaginario dove viene a contatto con persone della propria cerchia familiare del passato o del futuro. Vediamo quindi il bimbetto far conoscenza con la mamma bambina, con il nonno da giovane o con lo zio; con Miraï, ormai adolescente, che diventa vera e propria guida per la crescita dello stesso Kun. Da tutti questi incontri, il bambino saprà trarre gli insegnamenti e la forza necessari a superare la gelosia, capendo il valore della famiglia e, soprattutto, accettando e valorizzando la figura della sorellina. Sarà per Kun un percorso difficile ma che gli permetterà di affrontare al meglio la vita che ha davanti.


Realizzato con tecnica mista - la CGI in questo caso solleva qualche dubbio per la troppa meccanicità delle scene - Mirai è un film che si potrebbe definire minimalista. Non ci sono grandi storie nella nuova fatica di Mamoru Hosoda, considerato fra i più importanti discendenti della scuola dell’animazione giapponese. Le vicende quotidiane di Kun e Miraï, per altro piuttosto ripetitive – i pianti, le reazioni indispettite di Kun, ma anche, ad esempio, i suoi tentativi di imparare ad andare in bicicletta - hanno poco di poetico, se escludiamo la poesia delle piccole cose. Tant’è che le parti migliori del film sono quelle nelle quali il piccolo si rifugia nella dimensione fantastica e, in particolar modo, quando fa la conoscenza dei propri avi nel passato. Proprio questa carenza di passaggi poetici risulta penalizzante per un film che, per altro, ha alcune intuizioni notevoli: ad esempio, la ricostruzione assai complessa della stazione ferroviaria; o l’aver fatto progettare a un architetto la casa in cui Kun e Miraï vivono insieme ai genitori, un ambiente particolare - poco frequente in Giappone - progettato su più livelli, con un grande giardino posto al centro e un albero d’alto fusto, simbolo della vita e del trascorrere del tempo e delle generazioni. Come dichiarato dallo stesso Hosoda alla presentazione in prima mondiale a Cannes, la sua intenzione era quella di realizzare una storia realistica, presa direttamente dalla propria infanzia o meglio - come afferma lui stesso - dalla sua “seconda infanzia”, una volta perso lo status di figlio unico molto coccolato.


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