Un’astronoma di mezz’età , di origini francesi, vive in una bucolica villetta nei pressi di Trieste. Ha un figlio, Jerome, che abita a Montpellier e al quale è molto legata. I due condividono un doloroso e inquietante segreto che mette a dura prova il loro rapporto e le loro stesse esistenze. Il tutto si complica quando Davide, un giovane studente universitario, coinvolto, suo malgrado, nella tragica e inconfessabile vicenda, entra nella loro vita. Colpa, ipocrisia, inganno, egoismo: questi i temi al centro della narrazione di Isabelle, lungometraggio diretto del regista milanese Mirko Locatelli. Il film, vincitore del premio per la Miglior Sceneggiatura al Montreal World Film Festival, indaga la complessità dei rapporti umani con uno stile intimista, attento a cogliere le più piccole sfumature dei personaggi. Protagonista del racconto è una donna complessa e misteriosa, la cui figura non è immediatamente leggibile, ma viene svelata pian piano attraverso un meccanismo narrativo che predilige il non detto all’esplicito. La sceneggiatura, firmata a quattro mani dal regista e da Giuditta Tarantelli, gioca a confondere lo spettatore, a disorientarlo non consentendogli di comprendere subito le vicende oggetto del racconto. Le prime sequenze mostrano la protagonista in una serie di azioni apparentemente slegate tra di loro: lei che chiede informazioni a un uomo su un incidente stradale nel quale ha perso la vita una giovane donna, lei che conversa nella hall di un ospedale con due pazienti, lei che litiga con il figlio al telefono, intimandogli di mantenere la calma e di stare vicino alla moglie che è in attesa di un bambino. L’affresco narrativo si arricchisce sequenza dopo sequenza di dettagli sulla vita professionale della donna, intenta a lavorare con passione alle sue ricerche, e permette di cogliere tramite poche esaustive inquadrature una sottile e imprecisata inquietudine che sembra animare i suoi pensieri. Nonostante gli indizi che il racconto fornisce non permettano di avere nell’immediato un quadro completo della storia, l’alone di mistero che avvolge luoghi e personaggi è palpabile. A sciogliere i dubbi dello spettatore sarà l’irruzione in scena del personaggio di Jerome che consentirà il disvelamento del segreto che unisce madre e figlio. Nonostante il film non prescinda totalmente dagli schemi classici del thriller, regalando allo spettatore attimi di tensione, è evidente che l’oggetto d’interesse di Locatelli siano i personaggi e le loro complesse dinamiche psicologiche. Il regista mostra quali siano le reazioni e le inevitabili conseguenze che derivano da un’azione grave e taciuta troppo a lungo. Segue i personaggi e ne rivela i tormenti interiori con una rispettosa distanza, cercando di evitare qualsiasi tipo di giudizio o di condanna dei loro gesti. La sceneggiatura registra semplicemente, attraverso complessi dialoghi, le emozioni dei protagonisti. La macchina da presa li spia come dal buco della serratura, si avvicina solo raramente ai volti optando per campi totali e mezze figure in luogo di primi piani e dettagli. La scelta di non vincolare lo spettatore a un significato e a un'emotività precostituiti, lasciandogli così la libertà di interpretare a suo modo ciò che vede e sente, si traduce in lunghi piani sequenza realizzati con un generoso uso di panoramiche e carrelli. Nella stessa direzione si muovono gli interpreti della pellicola, che sfuggono a ogni sorta di manierismo, conferendo spontaneità e verità ai gesti e alle parole dei personaggi che incarnano. A vestire i panni della protagonista c'è l’attrice francese Ariane Ascaride, che con grande sensibilità riesce a interpretare le mille sfumature di una donna dalla personalità sfaccettata, in continua lotta con se stessa e il proprio sistema di valori. Dolce e risolutiva con il figlio, amabile, spensierata e infantile con il suo allievo Davide, volubile nelle reazioni che oscillano dal pianto disperato a un riso incontenibile, dalla gioia esplosiva alla tristezza più nera.