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Gli amori folli

29/04/2010 11:00

Tania Marrazzo

Recensione Film,

Gli amori folli

Alla veneranda età di ottantotto anni, Alain Resnais mantiene ancora lucide le sue profonde capacità di fascinazione, realizzando una vera e propria poesia visi

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Alla veneranda età di ottantotto anni, Alain Resnais mantiene ancora lucide le sue profonde capacità di fascinazione, realizzando una vera e propria poesia visiva e narrativa che è gioia per gli occhi e cibo per la mente. Lo sperimentalismo, insieme a quel gusto per il racconto antilineare che da sempre hanno contraddistinto il suo stile, fanno de Gli amori folli un film pienamente al passo coi tempi, ma con un retrogusto nostalgico che a tratti strizza l’occhio alla Nouvelle Vague. Incident è il romanzo di Christian Gailly a cui si ispira Resnais, Les herbes folles è il titolo originale del film diventato in Italia Gli amori folli: tre declinazioni che si coniugano nell’opera del regista francese. La storia prende infatti avvio da un incidente, una casualità si potrebbe meglio dire, in quanto Georges Palet (André Dussollier) trova un portafoglio nel parcheggio di un centro commerciale, lo apre, ne osserva il contenuto, scopre che appartiene ad una donna e comincia a fantasticare su di lei. Marguerite Muir (Sabine Azéma) diventa presto un’ossessione e, nonostante un rifiuto iniziale, accade anche il contrario, perché la donna inizierà a cercare Georges senza nemmeno sapere perché.


C’è in questa pellicola una sorta di irrazionalità di fondo che finisce ben presto per abolire totalmente il principio di causa-effetto. Inutile interrogarsi sulle motivazioni o i sentimenti che guidano le azioni dei personaggi perché in questo modo sarebbe impossibile carpirne il senso. Come l’erba folle del titolo, quella che cresce in posti inaspettati fra le crepe dell’asfalto o tra le rocce di campagna, allo stesso modo è folle l’amore che in questo film spunta e sparisce all’improvviso. Si tratta però di uno stordimento che dura poco, il tempo di lasciarsi andare a questi non sense narrativi, il tempo per comprendere le motivazioni che stanno alla base di questo atteggiamento. Nello gettarsi a capofitto nelle situazioni, nel seguire in maniera incontrollata il flusso della propria coscienza e delle proprie pulsioni, Georges e Marguerite incarnano probabilmente ciò che più si avvicina al senso della parola “vivere” senza freni e inibizioni, completamente svincolati da qualsiasi tipo di convenzione sociale, fino a raggiungere una libertà tale che non può che risultare assurda a chi la osserva. Se inizialmente il film sembra percorrere la strada di una possibile passione senile, poco basta per comprendere che il fulcro del racconto non sta nel desiderio per qualcuno, ma nel desiderio per il desiderio stesso, come quando si pensa di amare qualcuno senza rendersi conto di essere innamorati soltanto del concetto di amore. Quando Georges trova quel portafoglio e sente la voce di Marguerite al telefono, la sua mente comincia a correre travalicando ben presto la realtà, anche quando la vede, la incontra e le parla, l’impressione che ha di lei rimane sempre quella che si era costruito sulla base del nulla, senza concretizzarsi mai.


Resnais ribadisce il suo statuto d’artista e di maestro del cinema utilizzando una regia modernissima che mescola generi e archetipi: la voice off e i tentennamenti telefonici hanno l’odore della commedia romantica, le scale, le espressioni contenute di drammi apparentemente imminenti, il mistero che circonda gli individui attingono a piene mani dal giallo e dal thriller hitchcockiani per affievolirsi infine in un contesto naturale di verdi vallate e cieli aperti. La precisione con la quale gli oggetti sono organizzati all’interno delle singole inquadrature fa di ognuna di esse un quadro da ammirare, a volte con sconcerto e spaesamento, quando si nota come da una scena all’altra i mobili cambino apparentemente dimensione. Infine la brillantezza dei colori, toni accesi e contrastanti che fanno sì che si provi piacere semplicemente osservano la stesura di una vernice azzurra su di una superficie, e che esprimono la dimensione più surreale della storia. L’ultimo lavoro di Resnais contiene in sé il principio della macchina cinema: Georges Palet immagina la sua vita come fosse un film di cui lui è il regista, e nel quale non può fare a meno di sentire, di tanto in tanto, una profonda frustrazione.


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