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Fratelli d'Italia

30/04/2010 11:00

Valerio Ferri

Recensione Film,

Fratelli d'Italia

Passione, impegno (sociale) e un pizzico di poesia sono gli ingredienti principali del piccolo gioiello firmato Claudio Giovannesi...

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Passione, impegno (sociale) e un pizzico di poesia sono gli ingredienti principali del piccolo gioiello firmato Claudio Giovannesi. Dopo essere entrato in contatto con la realtà multietnica dell’ITC "Paolo Toscanelli" di Ostia, il regista romano matura gradatamente l’idea di costruire un documentario attorno al melting pot locale, che confluirà nella realizzazione del suo secondo lungometraggio, rivisitazione più ampia di Welcome Bucarest, contenuto in esso. Questo docu-film, nato quasi per caso, racchiude in sé tante peculiarità del cinema d’autore artigianale del passato, condite dalla necessità di raccontare ed informare attraverso il cinema, senza l’ingiusta mannaia della “paura gratuita” sempre più strumentalizzata dai mass media. In una congiuntura storica in cui la legge di mercato regola (giustamente) anche l’universo del grande schermo e a soli tre mesi dallo scandalo cinepanettoni, ci si interroga da tempo su presente e futuro del cinema impegnato d’essai, in particolar modo sul bisogno di salvarlo dalla logica cinica e spietata dei tracotanti interessi politici e commerciali.


Il film è diviso in tre parti di egual misura: tre atti eterogenei con tre personaggi diversi per altrettanti spaccati complementari sul controverso tema dell’integrazione, «raccontati nel privilegio della quotidianità». Alin è un ragazzo rumeno di 16 anni, vive da quattro in Italia e la sua storia rappresenta l’incomunicabilità dello straniero nei confronti del sistema scolastico, dai professori ai compagni. La paura, ma allo stesso tempo il forte desiderio di essere parte di quel mondo così distante, lo porteranno a rinchiudersi nel suo microcosmo di connazionali. Masha è un’adolescente adottata e porta con sé il duro peso di un passato riemerso all’improvviso, personificato dal fratello bielorusso lasciato in patria. La felicità di averlo ritrovato dopo sette anni e la prospettiva di poterlo abbracciare di nuovo nella sua patria natale si scontreranno però con il timore di fronteggiare i fantasmi di un passato oscuro, combattendo tra il bisogno di riesumare le proprie origini e lo scetticismo della terra adottiva. Nato e vissuto in Italia, ma di origini egiziane, il giovane Nader è l’ultimo protagonista dell’opera. I suoi 30 minuti costituiscono probabilmente il dipinto più intenso e completo dell’intera pellicola. Attraverso il suo spezzone viene enfatizzato il conflitto più profondo dell’immigrato, quello con la propria cultura e la propria famiglia. Ora il punto di vista si allarga però ulteriormente, fino a fagocitare in toto anche la presenza attiva della cultura italiana. L’incontro-scontro tra i due poli è a questo punto definitivo, raggiungendo il climax al culmine della loro vicinanza. L’universo finale che si delinea è dunque un calderone di contraddizioni caleidoscopiche ed esigenze apparentemente inconciliabili: dalla disperazione di una madre intenta a strappare il figlio alle tentazioni nostrane, ad una figura paterna che cerca di compensare i bisogni della famiglia, fino ad un’Italia ben disposta a tollerare lo straniero, ma forse ignara del reale arricchimento di cui potrebbe giovarsi la propria identità culturale.


Visti i mezzi a disposizione e il budget limitato non ci si poteva aspettare miracoli; lo è già il fatto che il film sia stato prodotto e distribuito in cinque copie grazie a Cinecittà Luce e ai (modesti) fondi della Regione Lazio. Fratelli d’Italia non ha certo le ambizioni commerciali di un film d’intrattenimento, né tanto meno velleità da botteghino. Semmai va premiato il coraggio di un regista emergente, in grado di affrontare un tema così complesso attraverso una semplicità disarmante. Non esistono copioni, né forzature o cliché, ma solo la vita dei protagonisti nella sua quotidianità e nella sua spontanea evoluzione. Guai però a definirlo un reality. Lo stesso Giovannesi ha voluto sottolineare il lento processo di assimilazione per non far avvertire la telecamera agli “attori” come un corpo estraneo, girando ore ed ore di ripresa ed inserendosi lentamente nella vita di tutti i giorni. Il risultato non può essere perfetto, ma difficilmente qualche psicologo avrebbe potuto fare di meglio con dei ragazzi presi dalla strada. Chapeau!


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