Uno Sliding doors calato perfettamente nell’odierna realtà italiana è il convincente biglietto da visita di Alessandro Aronadio per il suo esordio al cinema. I presupposti lasciavano già intravedere un’equazione in grado di garantire un fedele spaccato dell’attualità nostrana e allo stesso tempo una sceneggiatura capace quantomeno di tenere sveglio lo spettatore; il rischio tangibile era però quello di utilizzare del materiale già ampiamente sfruttato da altri. Per ritrovare l’escamotage dello “sdoppiamento” e degli universi paralleli è sufficiente ritornare al Woody Allen degli ultimi tempi o allo stesso Sliding Doors, senza scomodare il mito Kieslowski. Il regista romano sembra disegnare un chiaro cammino verso un lento disfacimento convergente, in cui né l’amore né l’amicizia (finalmente!) sono in grado di trasformare l’inesorabile protrarsi del caso e del destino, tantomeno di rallentarlo. In una società in cui da anni si ribadisce la raggiunta conquista della libertà di scelta, ma non si forniscono i mezzi (e i fini) per scegliere, nessun giovane spettatore rimarrà indifferente di fronte all’atmosfera madida di apprensione e apatia che avvolge la pellicola. Lo sfondo è quello di una comune città italiana. Due ragazzi poco più che ventenni sono diretti al pronto soccorso locale: uno di questi, Matteo, non riesce a controllare l’auto nella notte piovosa e tampona una volante dei carabinieri in borghese. I due ragazzi subiscono percosse e prevaricazioni da parte dei due agenti, ma la giustizia non sembra potergli garantire la legittima rivalsa. La vita di Matteo trascorre comunque apparentemente felice tra le attenzioni della famiglia, la profonda amicizia di Sandro, la relazione con la barista Sonia e il lavoro precario e malpagato da fiorista. Il successivo rifiuto dell’Arma e la pericolosa amicizia di Ivan sono però l’espressione di un presente che si trascina per inerzia e la conseguenza della ferita, ancora non rimarginata, di un passato vivo. Dall’altra parte c’è invece un Matteo che non tampona l’auto dei carabinieri per un soffio e arriva al pronto soccorso per prestare le cure all’amico Sandro. L’esistenza del giovane non è poi così diversa: solito bar, stesso lavoro, sempre Sandro, l’amore per una ragazza benestante e quello della famiglia. La mancanza di una scossa e l’attesa passiva verso una svolta che dovrebbe scegliere per lui lo porteranno ad entrare nell’Arma, spinto dal desiderio di farsi vedere finalmente realizzato agli occhi del padre malato. Nei pensieri di Matteo ci sono però ancora i patemi e le insicurezze verso un futuro ambiguo e non così desiderato, specie stridente con il proprio passato da manifestante. La palla da tennis che in Match Point finiva sul nastro della rete decretando vincitori e vinti viene ora sostituita dalla distanza irrisoria tra due automobili. Questione di centimetri, anche stavolta, sebbene il cinico Caso di Aronadio dimostri di essere ancora più spietato nella tessitura del proprio disegno. La scissione dei due universi lascia spazio ad un crudo realismo in cui non c’è via d’uscita, in una realtà in cui le possibilità infinite esistono, ma l’assottigliarsi delle sue estrinsecazioni rende quasi impercettibili le sfumature e conduce ad un epilogo disarmante. Nelle due vite di Matteo la pesantezza delle scelte è in grado di sconfiggere anche il destino, costringendolo per la prima volta ad un ruolo defilato con compiti di regia subordinati. La denuncia di Aronadio è completa e ha il notevole merito di sperimentare e giocare nel contesto nostrano attingendo da una tradizione vincente, senza scopiazzare o strafare. Inoltre la presenza di attori strappati dal mondo ivi rappresentato non fa che rendere Due vite per caso ancor di più un prodotto eccellente da rivolgere al pubblico più giovane, sempre meno attratto dal cinema italiano moderno - non certo per proprie colpe.