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L'uomo leopardo

19/05/2010 11:00

Luca Lombardini

Recensione Film,

L'uomo leopardo

Una serie di efferati delitti sconvolge la sonnolenta quotidianità di Ciudad Real...

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Una serie di efferati delitti sconvolge la sonnolenta quotidianità di Ciudad Real. Tutti gli indizi sembrano condurre ad un giaguaro inavvertitamente sfuggito alla showgirl Kiki Walker. L’agente teatrale Manning è l’unico ad essere convinto che dietro gli omicidi si nasconda la mano umano.


Secondo film estratto dal cilindro della premiata ditta Val Lewton-Jacques Tournier si posiziona, in un’ipotetica classifica di gradimento, sul terzo gradino del podio: meritatamente preceduto, e in rigoroso ordine di qualità, da Il Bacio della Pantera e Ho Camminato con uno Zombie. L’Uomo Leopardo rappresenta a tutti gli effetti il secondo adattamento “woolrichiano” per il grande schermo. Prima di lui soltanto Street of Chance di Jack Hivley, a sua volta ispirato a The Black Courtain, ovvero Sipario Nero. La pellicola ha l’involontario demerito di succedere a Cat People, tutt’ora modernissimo esempio di thriller difficilmente eguagliabile per tensione, atmosfere e inquietudine. Alla seconda prova per la gloriosa RKO, il duo produttore-regista (anche se le malelingue vogliono quest’ultimo esclusivamente relegato al ruolo di prestanome facente copertina al posto del deus ex machina) ribadisce i parametri imprescindibili della rivoluzione cinematografica già introdotta appena una anno prima da Il Bacio della Pantera: low budget, scene girate prevalentemente in studio e massima considerazione nei confronti di un orrore che, soprattutto per esigenze economiche, deve essere fuori campo; quindi suggerito ma mai mostrato. A supportare l’operazione il romanzo maggiormente canonizzato sulle regole classiche del giallo mai scritto da Cornell Woolrich, fedelmente considerato tanto in fase di sceneggiatura quanto al momento della messa in scena.


Tournier segue passo passo la strada tracciata dallo scrittore di riferimento, preciso nel svolgere il compitino e attentissimo al non venir meno alla serie di imperativi che stanno a monte della pellicola. Chiaro, consequenziale e pertinente L’Uomo Leopardo rappresenta il manifesto di celluloide dell’horror secondo l’RKO e, per certi versi, funziona proprio per questo. Il film gioca con successo sul sentimento suscitato dalla crescente mancanza di certezze dovuta proprio alla presunta sicurezza relativa alla natura degli omicidi. Gli abitanti di Ciudad Real brancolano nel buio di una convinzione che vuole il felino trasformarsi in carnefice, smarriti nel sospetto di una presenza/assenza nascosta nella notte, resa inquieta e inquietante da ombre minacciose e profili ambigui. Un trucco che alla lunga finisce per stancare anche lo spettatore meno scafato che, con il minimo di arguzia possibile, riesce ad individuare in anticipo quello che dovrebbe rappresentare il colpo di coda finale. Resta il piacevole ricordo dei quattro delitti, seriale quadrilatero di morte in perfetto equilibrio tra prodigiose ellissi narrative ed eccellente dosaggio della suspense, oltre che l’immagine del disperato Belmonte, personaggio secondario ma non per questo non riconducibile alla personale galleria di Cornell Woolrich: innamorato dilaniato dall’idea dell’amata ormai morta che, all’oblio autodistruttivo dell’alcol, ha una sola alternativa: quella della vendetta.


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