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Una sconfinata giovinezza

05/10/2010 11:00

Erika Di Giulio

Recensione Film,

Una sconfinata giovinezza

Una toccante e sconfinata storia d’amore...

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Una toccante e sconfinata storia d’amore. Dopo aver esplorato tutti i generi per 40 anni, Avati torna ad impegnarsi, portando sul grande schermo il tema poco frequentato della disabilità mentale. E lo fa tenacemente, con il tratto del romanziere che racconta piano, seguendo traiettorie semplici ma impetuose. Al cinismo di un padre per Il figlio più piccolo succede un amore totale e incondizionato tra un uomo e una donna, che travolge gli ostacoli della malattia. Tratto dal romanzo omonimo di Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza è un film intenso e drammatico, una creatura forte che nasce dalle mani di un sapiente artigiano del cinema, intento a non abbandonarsi ad un approccio triste e compassionevole, ma a convogliare le energie in sentimenti positivi e maturi.


Lino Settembre (Fabrizio Bentivoglio, interprete sensibile e ispirato, mai eccessivo) e sua moglie Francesca Reatti, universalmente nota come Chicca (un’intensa Francesca Neri) sono una coppia unita e affiatata. Ormai prossimi alla sessantina, la loro vita è stata ricca di soddisfazioni personali e professionali. Lui, prima firma alla redazione sportiva del Messaggero, lei diligente professoressa di Filologia Medievale alla Gregoriana. Lui nato e cresciuto a Bologna, lei figlia dell’altaborghesia romana. Lino amante del calcio giocato, Chicca appassionata di testi classici. Una diversità che li lega da sempre e che da sempre li rende sereni. La mancanza di figli poi non ha compromesso il loro rapporto, ma è stata, al contrario, un motivo di ulteriore forza ed equilibrio. Quando la patologia irrompe nelle loro esistenze, i protagonisti ne escono a loro modo sconvolti e cresciuti. Lino da tempo accusa problemi di memoria, si sente stanco e ha perso le parole, mettendo a rischio anche la sua posizione professionale e familiare. Dopo attenti e approfonditi esami, un neurologo diagnostica una patologia degenerativa delle cellule cerebrali. Francesca dapprima sceglie di allontanarsi per salvare se stessa, certa che il marito sarà comunque assistito, ma poi torna e decide di regredire al suo fianco nel nome dell’amore (materno), lottando pervicacemente per stargli vicino e mantenere aperta la comunicazione con lui. La malattia cura un vuoto esistenziale. Lino diventa un bimbo incapace di dosare l’intensità delle emozioni, mette in imbarazzo, è violento senza esserlo e senza volerlo. Dopo una prima fase aggressiva in cui si accanisce contro sua moglie, soffrendo del proprio male e di ciò che non potrà più essere, passerà ad essere "il figlio più desiderato" e Chicca una mamma insostituibile, almeno "fin quando quel figlio non scapperà via di nuovo andandosi a nascondere chissà dove".


La sofferenza vissuta da Chicca e Lino (bambino tra i bambini), li ha già resi speciali in un contesto familiare, quello da cui proviene lei, una famiglia di ghiaccio come l’inverno che spazza via il film per tutto il tempo, in cui "tutti figliano come conigli" ed in cui Lino non è mai stato visto di buon grado. Questo primo rammarico ha già cementato la loro unione a tal punto che l'insorgere della vera tempesta che sconvolgerà la loro vita non potrà che vederli assieme in un mutamento progressivo dei loro ruoli. E allora eccoli carponi sui sentieri dell’immaturità e dell’infanzia, per non perdersi, loro, così maturi. Insieme sulla piste di una tenera regressione, l’uno accanto all’altra, a gareggiare in tappe di latta al giro d’Italia. Al desiderio classico di invecchiare insieme, minacciato dalla malattia, si sostituisce la scelta (in)consapevole di ringiovanire insieme, ridiventando adolescenti. E allora un amore sconfinato non può che stringersi ad una sconfinata giovinezza. Ed il percorso non può che invertirsi. Ma i toni restano pacati. E la regressione fluida. I flashback, senza soluzione di continuità, si inseriscono delicatamente. Del resto il tempo per Lino è una lamina sottile, e la contiguità della dimensione presente-passato si fa sempre più naturale ed evidente. Tutto è contemporaneo e straordinariamente vicino, mentre l’esistenza scollata dal "qui ed ora" guadagna spazio nell’infinito altrove dei mondi possibili. La memoria del passato e sul passato si fa preziosa e necessaria. Lino non è in grado di giocare usando un joystick per progredire e saltare gli ostacoli, premerà sempre e solo il tasto per tornare indietro. Perché Lino è già tornato indietro e preferisce la pista. Novello Pollicino, percorre a ritroso il cammino e torna a casa.


Il regista bolognese risolve il contenzioso con la sua adolescenza, si spoglia della ragionevolezza e ci restituisce ad una libertà di "vedere oltre", di fantasticare, che è prerogativa della prima giovinezza, in una continua (con)fusione di ricordi e fantasie, di nottate passate a ripassare le tabelline e ad ostinarsi su corse campestri vinte 50 anni prima. Scompone l’amore nelle mille variazioni, indicando come da forme di attrazione totalizzante e facilmente condivisibile si passi a declinazioni sempre più profonde in cui l'affetto, la complicità, la trepidazione per l'altro, assumono un ruolo determinante. Pupi Avati attinge a piene mani alla sua storia personale, apre le stanze dei ricordi e delle suggestioni radicate nella nebbia dell’Appennino Emiliano e vi si radica con più forza. L’universo iconografico del regista (ricreato per intero negli studios di Cinecittà) prende vita e si anima. Tanti i riferimenti autobiografici nella terra magica di Case Mazzetti: il cane Perché, il brillante ritrovato, l'incidente stradale in cui persero la vita i genitori, il gioco dei ciclisti, l'amico Nerio nato senza palato e che conosceva a memoria tutte le tabelline, Leo che sa resuscitare i morti, una zia davvero Amabile. È in quel luogo che Lino Settembre andrà a nascondersi ritrovando il cane di suo padre, il suo Perché. Una riconciliazione incomprensibile ai più. La conferma di essere ricongiunto ormai per sempre alla propria giovinezza. Nessuno gli darà più l’illusione di poter contare ancora qualcosa. Lino ormai non ne ha più bisogno. Questo sarà il suo ultimo e definitivo nascondiglio. Non può esserci autunno più dolce. Conservato e protetto dalla nebbia dei suoi tempi di bambino, Lino si fa sostanza leggera e Avati invita lo spettatore a difendere sempre il fanciullino che si ha dentro.


Superati gli ardori visivi e le suggestioni gotiche di gioventù, Avati si conferma intimista e sobrio nei contenuti e nella forma. Dalle tinte calde virate nei toni seppia della fanciullezza, si passa agli ambienti sterili dell’oggi. Gli eventi sono sufficienti a dare il tono dello stato d’animo dei protagonisti, secondo la misura dell’autenticità. La ballade serenamente struggente composta dal fedelissimo Riz Ortolani, accompagna in definitiva un’opera che non si ammala toccando la malattia, ma che anzi apre ad una certa fiducia, ad un sentire non privo di speranza, quella stessa che Chicca avrà nello sguardo quando, sopravvissuta all’incidente, si fermerà a contemplare la valle sconfinata dove adesso corre felice e rappacificato Lino.


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