
Quanti registi possono vantarsi di avere uno stile così unico e personale al punto che il loro nome diventi addirittura un aggettivo, una sorta di marchio di fabbrica? Forse non moltissimi, ma comunque abbastanza, principalmente per le tematiche che amano affrontare e per il loro particolare modo di raccontare una storia. Basti pensare a David Cronemberg, il cui nome a Hollywood è sinonimo di metamorfosi/celato, o il nostro Federico Fellini.
Quante volte avete sentito nominare il termine felliniano, associato a un film o anche nella vita di tutti i giorni, a indicare qualcosa di surreale e magico? Questi solo per citarne alcuni tra i molti perché l'elenco potrebbe proseguire a lungo, spaziando tra i generi più vari. Ma quanti registi sono così visionari al punto che uno dei più famosi e importanti musei del mondo ospiti per tre mesi (poi prorogati a cinque) una mostra a lui dedicata? Qui la cerchia si restringe drasticamente e tra i pochi che fanno parte di questa elite esclusiva c’è Tim Burton. Burtoniano, appunto. Letteralmente gotico, fiabesco. Uno dei registi contemporanei più visionari, il cui stile inconfondibile e i fotogrammi dei suoi film paiono essere affreschi gotici, quadri surreali e macabri.

Tinte fosche e scure contrapposte a esplosioni di colori pastello; personaggi grotteschi, a volte mostruosi, ma al contempo carichi di malinconia e infinita tristezza; moderni freak capaci di commuovere. Durante i suoi 27 anni di carriera (iniziata come disegnatore alla Disney e proseguita come regista di cortometraggi sperimentali quali Vincent (dedicato al mito di Vincent Price) e Frankenweenie, fino a raggiungere lo status di autore di culto con il suo Batman, il tutto suggellato da Oscar per trucchi, costumi e scenografie e il Leone d'oro alla carriera a Venezia nel 2007) le sue schiere di fan si sono smisuratamente allargate fino a portarlo alla glorificazione.
Al Museum of Modern Art di New York dal 22 Novembre al 26 Aprile 2009 è stata allestita una mostra a lui dedicata: The Art of Tim Burton. Ma Burton non è un artista qualunque, chi lo conosce, chi lo ama, lo sa: è un pianeta a sé stante, una dimensione latente che unisce la nostra realtà a un luogo magico e suggestivo, colmo di incubi e meraviglie; una porta spalancata su di un’altra dimensione. Un mondo parallelo. Una filosofia. E Ron Magliozzi, curatore della mostra, pare averlo capito appieno, sbilanciandosi con cognizione di causa nel sostenere che «non esiste un altro filmmaker vivente, e di analogo talento, che abbia un archivio così prezioso dal punto di vita artistico».

Il corridoio al primo piano del MoMa inizia ad assumere toni sempre più cupi e le pareti bianche immacolate si imbrattano di scritte instabili. Caratteri neri, sottili e traballanti, ripercorrono la carriera del regista come un gigantesco murales. Date e titoli, da Pee Wee’s Big Adventure del 1985 fino all’ultimo Alice in Wonderland, uscito lo scorso 3 marzo. Il corridoio prosegue e scompare in una sala, piccola, angusta. Su di una parete, con i soliti caratteri sbilenchi, c’è il nome del regista, sull’altra la gigantesca bocca dentata di un clown grottesco.
A terra, un tappeto vermiglio si srotola come se fosse una lingua: è l’ingresso della mostra. Varcando la soglia, inghiottiti dal clown, si viene fagocitati dentro la mente di Burton, attraverso un corridoio che funge da esofago, a strisce irregolari bianche e nere, in cui viene proiettato il cortometraggio animato The world of Stain-Boy. Quando si arriva in fondo al corridoio, ci si ritrova dentro la sua testa: un luogo buio, in cui creature luminoscenti volteggiano nell'aria. Un mondo in cui si rincorrono magia, dolore, realtà e allegria.
Oltre 700 opere, la maggior parte delle quali mai mostrate al pubblico, tra disegni, storyboard, dipinti, costumi, pupazzi, modelli, fotografie e gli immancabili schizzi ad acquerello con cui il regista ha creato mondi atroci dai tratti soavi. L'impatto visivo travolgente e le meraviglie nascoste in ogni angolo lasciano il visitatore a bocca aperta. Appaiono in chiaroscuro anche le tematiche fondamentali della filmografia del regista, prima fra tutte l'estetica dei freaks, emarginati incompresi di cui facilmente ci si innamora. Poi il rapporto bambino/figlio e adulto/padre, culminato con Big Fish. E la tematica della morte, esorcizzata dall'unione di violenza e commedia. La maggior parte delle opere esposte fanno parte della collezione privata del regista; molte erano rinchiuse in soffitta, impolverate e dimenticate nella sua dimora londinese.
«La notizia della mostra mi ha turbato un po' a dire la verità, non riesco a rendermene conto» ha dichiarato Burton all'Independent. Ma poi deve aver metabolizzato tutto nel migliore dei modi, dal momento che nell’atrio del museo c’è una scultura alta cinque metri, realizzata appositamente per la mostra. Inoltre Burton ha messo a disposizione anche un mucchio di altro materiale, tra cui oggetti che amava da bambino, film che lo hanno ispirato durante l’infanzia e l’adolescenza trascorsa in California, bozzetti dei suoi primissimi lavori alla Disney e progetti per film mai realizzati come Il ragazzo con i chiodi negli occhi.

Molte anche le fotografie di scena che lo ritraggono con l'inseparabile compagna e musa Helena Bonham Carter, conosciuta nel 2001 sul set de Il pianeta delle scimmie (dalla quale si separerà nel 2014), e con l'amico Johnny Depp, con il quale è già iniziata l’ottava collaborazione: Dark Shadows, film basato su uno show televisivo horror degli anni '60. Usciti dalla mostra si ha l'impressione di aver visitato un altro pianeta, di averlo appena toccato, e il ritorno alla realtà, con tutta la luce e i colori che ne derivano, fa fiorire una leggera nota di malinconia... quasi lo spettatore si sentisse davvero diverso.