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‭«Dai film di Bruce Lee cercavo di imparare le mosse da usare contro i bulli a scuola»: intervista a Gabri

25/03/2025 13:24

Marco Filipazzi

Intervista, Di Tendenza, Gabriele Mainetti, Film Italia, Film Arti Marziali, Film Drammatico,

‭«Dai film di Bruce Lee cercavo di imparare le mosse da usare contro i bulli a scuola»: intervista a Gabriele Mainetti, il messia del cinema di genere in Italia

La città proibita pesca dai film di king-fu e dalla poetica marziale di Bruce Lee: di questo immaginario e di tanto altro abbiamo parlato con Gabriele Mainetti.

La città proibita pesca dai film di king-fu e dalla poetica marziale di Bruce Lee: di questo immaginario, di cinema di genere e di tanto altro abbiamo parlato con Gabriele Mainetti.

Dieci anni fa Lo chiamavano Jeeg Robot è stata una vera rivelazione che ha dimostrato (c’è ancora bisogno di ripeterlo?) che è possibile realizzare anche in Italia dei film di genere, non nell’ottica di “essere come gli americani” bensì appropriandoci di questo concetto e facendolo nostro. Esattamente come abbiamo fatto in passato.

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Un concetto - e un amore per il genere - che Gabriele Mainetti porta avanti sin dai suoi primi corti (Basette e Tiger Boy, se non li conoscete fatevi un favore e recuperateli su YouTube) e che è esploso in maniera totale con il suo Freaks Out, di cui abbiamo già ampiamente tessuto le lodi. 

E ora, finalmente, arriva in sala il suo terzo lavoro, La città proibita, che pesca dall’immaginario dei film di kung-fu e dalla poetica marziale di Bruce Lee. Per darvi le proporzioni, l’ultimo film rilevante di arti marziali prodotto nel nostro paese è stato probabilmente Il ragazzo dal kimono d’oro di Fabrizio De Angelis e correva l’anno 1987.

Abbiamo avuto la fortuna di fare quattro chiacchiere con Gabriele Mainetti durante un incontro che si è tenuto al Cinema Arcadia di Melzo, nel quale si è parlato delle sue passioni, del cinema di genere in Italia e nell’importanza dell’esperienza cinematografica.

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‭«È bellissimo vedere una sala così popolata. Io faccio questo lavoro perché amo il cinema in modo viscerale e credo che l’esperienza che si può fare in sala è qualcosa d’irripetibile su di uno schermo televisivo. Ho rifiutato spessissimo soluzioni più facili; hanno provato a comprare ‘Freaks Out’ in tutti i modi approfittando di un momento difficile come quello del covid, ma nonostante per me sarebbe stato più vantaggioso da un punto di vista economico, ho deciso di rischiarmela e farlo arrivare in sala».

 

E aggiunge: ‭«Anche per ‘La città proibita’: all’inizio avrei dovuto solo produrlo perché stavo lavorando su un’altra cosa, ma questo altro progetto poi è sfumato perché sarebbe stato costosissimo realizzarlo. Mi avevano detto che si poteva fare, ma per la televisione, perciò ho mollato quel progetto e mi sono dedicato a questo».

Ed è una cosa abbastanza ironica se consideriamo il fatto che il film è prodotto (anche) da Netflix. Del colosso dello streaming traspare nel film la voglia di realizzare un prodotto internazionale, ad ampio respiro; una storia sì ambientata in Italia ma che riesce a parlare a un pubblico più ampio, che è anche la forza del cinema di genere. Perché La città proibita è cinema di genere, fiero ed orgoglioso di essere italiano.

«Sono sempre stato un’amante di questo tipo di cinema. Mi sono sempre divertito a guardare i film di Bruce Lee. A Roma lui c’è venuto e ha girato ‘L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente’, ma quello era un film cinese che usava Roma solo da un punto di vista scenografico. Guardando i suoi film mi immaginavo in qualche modo d’imparare qualcosa, così da utilizzarla contro i bulli quando ero ragazzino. Mi immaginavo di atterrarli come poteva fare il grande Bruce, però chiaramente non ci riuscivo».

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«Poi crescendo e iniziando a fare questo lavoro, ho deciso di non dimenticarmi di quel cinema che mi aveva divertito, che mi aveva emozionato e che mi è servito anche per crescere. Nei miei film porto questo immaginario irreale per cercare di proteggere il sogno del cinema. Io potrei avere una giara in cui buttar dentro vari generi cinematografici, poi ne tiro fuori uno e dico “Ok, adesso è il momento del film di fantascienza… facciamo un film di fantascienza"». 

 

«Il cinema di genere è un'alternativa al tipo cinema che solitamente siamo abituati a fare in Italia, ma quando i miei colleghi lo affrontano, sentono il dovere di rendere omaggio a qualcosa di più grande di loro e spesso cadono nell’errore di imitare senza capirlo davvero. Il punto è che non bisogna imitare, bisogna accogliere questo altro cinema che viene da un immaginario più vasto».

Ed è indubbio che Mainetti questa passione ce l’abbia nel sangue. La dichiarazione d’amore più esplicita la fa mettendo nel film una foto di Bruce Lee a Roma, scattata proprio mentre l’artista marziale era lì per girare L’urlo di Chen; un amore che però non si limita a questo, ma abbraccia tutto il cinema, ne è una prova la bellissima reinterpretazione della scena più famosa di Vacanze romane.

 

Ma laddove la maggior parte dei critici snob sono riusciti a scorgere questa “citazione alta” quanti si sono davvero accorti che ogni combattimento è a sua volta un omaggio, tutt’altro che velato, a vari generi e artisti marziali? Da quello nella tromba delle scale che rievoca a gran voce le atmosfere e il silat di The raid, passando per tutta la scena in cucina che è un gigantesco omaggio allo stile d’improvvisazione di Jackie Chan sino al finale che riecheggia Chocolate di Prachya Pinkaew.

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Come da tradizione del miglior cinema action c’è anche una sorta di progressione nelle scene di combattimento: dalle prime più divertenti (quella in cucina), sino a diventare via via più brutali e strazianti e culminare nello scontro finale tra Mei e Mr. Wang che è totalmente spogliato da qualsiasi fronzolo, lasciando trasparire solo la brama di vendetta della protagonista.

«È uno dei motivi per cui la mia protagonista era una stunt (Yaxi Liu, che ha fatto la controfigura nel live action di Mulan ndr) e non aveva mai fatto l’attrice prima, perché per me è impossibile pensare a un cinema di arti marziali, un kung fu drama, un wuxia, senza tenere a mente che certe scene sono possibili soltanto per degli atleti marziali. Non è un caso che Bruce Lee sia entrato così tanto nell’immaginario collettivo, c’è riuscito perché quello che vediamo sullo schermo lui lo faceva davvero. E quindi anche io volevo qualcuno che facesse davvero queste acrobazie, non che si allenasse solo per un periodo prima delle riprese per poi apparire magari fragile in ogni inquadratura. Non sarebbe stato autentico».

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Mainetti mischia, frulla, rimastica e reinterpreta e alla fine ciò che giunge sullo schermo è un amore (e una conoscenza) autentico per questo tipo di cinema. È palpabile. Per la messa in scena si circonda di maestranze fieramente italiane, ma che annoverano un curriculum internazionale alimentato da questo tipo di cinema. L’operatore di macchina è Matteo Carlesimo, che ha lavorato a I Mercenari 4 ed Equilibrium. Il direttore della fotografia è Paolo Carnera, braccio destro di Stefano Sollima. Poi ovviamente il fight coordinator è Liang Yang che ha preso parte a Deadpool e Wolverine, Mission Impossible Fallout, Pacific Rim, Rogue One, Edge of tomorrow giusto per citarne alcuni.

La città proibita vive proprio di questa doppia anima. Da una parte c’è la storia di vendetta di Mei, in perfetta salsa orientale; dall’altra quella amatriciana di Marcello, che rientra nei binari più classici dello storytelling italiano: la mafia, il dramma da tinello e un pizzico di commedia. La loro storia d’amore fa da collante a questi due film, fondendoli in una sola entità che funziona alla perfezione.

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«Io faccio un cinema che mi appartiene. Come si dice sempre, io metto me stesso in ciò che racconto e questo cinema a me parla, lo sento molto vicino. È difficile fare queste cose, ma se non ci si mette alla prova non si riusciranno mai a scoprire i propri limiti. Dopo Jeeg tutti mi chiedevano “Come mai non fai Continuavano a chiamarlo Jeeg Robot?”. La risposta è che quel film nella mia testa lo avevo già girato e mi sembrava una cosa facile e quando le cose sono facili, magari risultano anche un po’ noiose per il pubblico. E invece io spero sempre di realizzare qualcosa che meriti il vostro tempo, il vostro biglietto, perché con quello che spendete a vedere il mio film al cinema 2 ore ci fate l’abbonamento per un mese a una piattaforma streaming che vi offre mille film. Perciò io mi sento in dovere di offrirvi un’esperienza straordinaria per ripagarvi del vostro sforzo». 

 

«Questa è anche la modalità con la quale io vado al cinema: come spettatore investo il mio tempo e i miei soldi e in cambio pretendo qualcosa di speciale. Poi per carità, le commedie sono meravigliose perché ridere tutti quanti insieme dopo una giornata faticosa di lavoro è qualcosa di catartico. Però ci dev’essere anche un’alternativa che non debba essere per forza un film ombelicale, che ci costringe a guardarci dentro e magari intristirci. Per carità, fa bene anche quello ma non può essere sempre e solo quello. Perché noi queste cose un po' le abbiamo fatte in passato, abbiamo fatto tanti generi, abbiamo inventato tanti generi, perciò perché non continuare a farlo?»

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La città proibita dura 140 minuti che non pesano e che lasciano, una volta usciti dalla sala, un senso di appagatezza che è sempre più difficile trovare oggi al cinema. Perciò Grazie a Gabriele Mainetti per metterci tutta questa passione. Da spettatori non possiamo fare altro che aspettare il suo prossimo film.

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