Lost arrivava in tv il 22 settembre 2004, scompigliando le carte delle serie tv per com’erano state concepite sino a quel momento. Cosa resta di questo show rivoluzionario, 20 anni dopo.
Sembra incredibile, eppure sono già passati 20 anni da quando il volo 815 della Oceanic Airlines si schiantò su di un’isola sperduta in mezzo al Pacifico. Era il 22 settembre 2004, data sia della messa in onda del monumentale doppio episodio pilota diretto da J.J. Abrams, sia dello schianto dell’aereo, in un gioco di specchi dove realtà e finzione narrativa si sovrappongono.
Al suo debutto Lost scompigliò le carte delle serie tv com’erano state concepite sino a quel momento: se già Abrams aveva fatto intravedere la sua idea di serialità con Alias (2001-2006), con Lost tutto venne portato a un altro livello. Infatti da molti questa serie è considerata, a oggi, la Bibbia delle serie tv moderne; il punto zero da cui ha avuto origine la moda dilagante che ci ha portati a Netflix e alla serializzazione ossessivo-compulsiva che imperversa oggi.
Non che prima non vi fossero stati grandi esempi di serie tv (un titolo su tutti è Twin Peaks) ma la differenza stava proprio nel fatto che J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber non erano David Lynch e la loro idea di “serialità” era molto più standardizzata e facilmente replicabile, cosa che di fatto poi è avvenuta.
Lost: la ricetta del successo
L’impatto fu devastante. Lost ha una trama orizzontale molto forte sorretta, puntata dopo puntata, da flashback che approfondiscono la storia e il carattere dei protagonisti. A ciò si uniscono, sin da subito, una serie di elementi che decentrano la serie dalla facile etichetta di “survival”, dandogli sfumature mistery, fantasy, sci-fi e a tratti persino horror.
Inoltre, grazie ai cliffangher di fine puntata, gli autori gettavano addosso agli spettatori una serie di quesiti che avrebbero richiesto puntate, in alcuni casi addirittura intere stagioni, prima di trovare un senso. Una narrazione a scatole cinesi, dove dietro a ogni mistero se ne cela un altro ancora più complesso, trascinando tanto i protagonisti, quanto gli spettatori in una costante e frenetica ricerca di risposte.
Nella mente degli showrunner
Perché c’è un orso polare in mezzo a una giungla tropicale? C’è davvero un mostro che si nasconde tra gli alberi? Perché l’aereo è precipitato così all’improvviso?Chi ha lanciato il segnale radio intercettato dai sopravvissuti sulla spiaggia?
Queste sono alcune domande poste nell’episodio pilota di Lost. Eppure, tanto per fare un esempio, per capire cosa sia il mostro (perché sì, c’è davvero un mostro nella giungla, con l’aspetto di una nube di fumo nero pervasa da scariche elettriche), da dove arrivi e perché si trovi sull’isola dovremmo aspettare almeno un centinaio di episodi!
Con il senno di poi però possiamo dire che questi sono solo specchietti per le allodole, misteri abbaglianti per lo spettatore, trucchi per costringerlo ad andare avanti nella visione, ma che poco o nulla hanno a che vedere con ciò che Lost vuole davvero raccontarci.
C’era una leggenda metropolitana che girava mentre la serie era in onda: gli autori sapevano sin da subito che le stagioni sarebbero state 6, avevano idea di come svilupparle e soprattutto cosa sarebbe accaduto nell’ultimo episodio.
Assistendo alla serie in diretta, settimana dopo settimana, era difficile credere che fosse davvero così, bombardati come eravamo da domande e trabocchetti degli showrunner; ma rivedendola tutta di filata, a distanza di anni, sapendo già che cosa accadrà, il dubbio che sin da subito ci fosse un grande piano dietro i machiavellici misteri dell’isola si insinua sempre di più.
Quanto segue è una riflessione il più accurata possibile sul fatto che JJ Abrams, Damon Lindelof e Carlton Cuse sapessero esattamente cosa stavano raccontando sin da subito. O quantomeno avevano in testa il quadro generale che sì, potrà avere anche qualche sbavatura qua e là, ma funziona egregiamente anche a 20 anni di distanza.
Ok, ma di cosa parla Lost?
La prima domanda che dobbiamo farci come spettatori è: siamo sicuri che Lost racconti solo la storia di un pugno di sopravvissuti a un incidente aereo? Forse all'inizio, nell'incipit della prima stagione, e solo per introdurre i temi portanti che la serie esplorerà puntata dopo puntata. Forse l'Isola è solo una metafora che cela un contesto più grande e ignoto.
Forse Lost non parla affatto di persone che si sono perse, ma di persone perse (Lost appunto, ma inteso in un senso più ampio) che sull'isola ritrovano loro stesse, ognuno seguendo la propria via, i propri ideali e avvalendosi della propria esperienza personale. Più in generale Lost parla di fede, destino, razionalità e scelte inevitabili e lo fa sviscerando questi argomenti da ogni punto di vista possibile.
Questione di punti di vista
I sopravvissuti dell’Oceanic 815 sono costretti a collaborare per trovare sull’isola cibo, acqua e rifugi, ma anche fronteggiare orsi polari, mostri misteriosi, bunker sotterranei ed estranei ostili. Nel farlo ognuno mette a disposizione la propria esperienza.
Sin da subito Lost - e questa diventerà una delle caratteristiche principali della serie - porta avanti la sua narrazione su due piani temporali distinti, quello presente sull'isola e quello passato, raccontandoci attraverso i flashback la storia dei protagonisti (all'inizio, poi la faccenda si complica con flashforward e realtà alternative).
Medici che compiono miracoli, truffatori di professione, ex militari della guardia irachena, fortunati miliardari, rockstar, un disabile, una ragazza incinta, una coppia coreana in crisi; questo ventaglio di personaggi diventano la vera forza trainante di Lost. Piano piano capiamo perché ognuno di loro era sul volo Sydney – Los Angeles, scopriamo cosa hanno lasciato a terra e cosa ci sarebbe stato ad attenderli una volta arrivati a destinazione, e soprattutto impariamo a capire come ognuno di loro ragiona.
L’accuratezza psicologica con cui i personaggi sono portati sullo schermo è davvero il nodo cruciale della questione perché ogni decisione importante è motivata e sviscerata dagli autori per renderla più chiara e logica possibile agli occhi dello spettatore.
Locke: So perché noi due non siamo sempre dello stesso avviso, Jack. Perché tu sei un uomo di scienza.
Jack: Sì. E tu che cosa sei?
Locke: Io? Io sono un uomo di fede. Non crederai che tutto ciò sia accidentale? Che noi, un gruppo di sconosciuti, siamo sopravvissuti, molti poi solo con ferite superficiali. Credi che schiantarsi in questo luogo sia casuale? Non vedi che posto è? Siamo stati trascinati qui per uno scopo, tutti quanti. Jack, ognuno di noi è stato portato qui per una ragione.
Jack: Portato… E chi sarebbe stato, John?
Locke: L’isola. L’isola ci ha portati qui. Non è un luogo normale, te ne sarai accorto sicuramente. L’isola ha scelto anche te, Jack. È il destino.
Jack: Io non credo nel destino.
Locke: Sì, invece. Solo che ancora non lo sai.
Perché alla fine Lost altro non è che una questione di punti di vista: i fatti ci vengono raccontati e quando ci saranno da prendere delle decisioni, il bivio davanti a cui vengono messi i protagonisti (e lo spettatore di conseguenza) è sempre il medesimo: scienza o fede?
È questo il tema della serie, una sorta di lunghissima riflessione esistenziale che si interroga sul fatto che la vita di ognuno di noi sia già scritta e predestinata oppure che l’uomo sia la sola causa del suo destino, altrimenti il libero arbitrio sarebbe solo un’illusione. Destino o mere coincidenze? Ovviamente non vi è una risposta definitiva e tutto viene lasciato alla nostra interpretazione, liberi di credere in ciò che preferiamo.