Stephen Biro scrive, dirige e produce il primo American Guinea Pig in un limbo tra l’omaggio, il remake e l’americanizzazione, sia nella sua accezione positiva che in quella negativa. I capisaldi di Biro sono i primi due capitoli della saga giapponese, quelli più estremi, ma anche i più seminali, che sono valsi a Guinea Pig la fama che ancora oggi lo precede.
La dichiarazione è esplicitata sin dal titolo: il bouquet di budella e frattaglie (le vittime sullo schermo sono due, ma viene lasciato intendere che ce ne sono state e ce ne saranno altre) richiama a gran voce il fiore di carne e sangue di Hideshi Hino. Vengono recuperati anche l’estetica amatoriale, la patina da finto snuff, la quasi assenza di dialoghi e soprattutto le violentissime torture inflitte alle vittime. Insomma, il solito canovaccio.
Due ragazze vengono rapite dalla loro auto e si risvegliano in uno stanzone, avvolto dalla penombra, sdraiate su letti dalle candide lenzuola. Attorno a loro orbitano tre tizi con i volti celati dietro inquietanti maschere.
Uno maneggia una vecchia Super8 a pellicola, l’altro una telecamera Video8; il terzo, un energumeno a torso nudo, indossa una maschera raffigurante il teschio di un caprone (un rimando alla divinità pagana Baphomet, divenuta figura cardine dell’occultismo moderno) ed è il vero protagonista dello spettacolo che sta per andare in onda. Sarà lui, infatti, il carnefice che infierirà sulle vittime (drogate e tenute in stato di semi-coscienza) mentre gli altri due filmeranno ogni suo movimento, ogni dettaglio, mostrandolo senza filtri allo spettatore.
Il film, che con i suoi 73 minuti stacca di quasi mezz’ora i riferimenti nipponici, punta tutto su torture, shock ed effetti speciali. Le vittime vengono dissezionate con perizia chirurgica e lentezza, il che rende ancora più estenuante le amputazioni e gli svisceramenti inscenati. C’è persino una sequenza in cui il maniaco si accanisce sugli occhi di una delle ragazze, vero marchio di fabbrica dei primi due Guinea Pig.
Anche se non tutti gli effetti speciali portati sullo schermo hanno la medesima efficacia dell'originale giapponese, il livello è altissimo: proprio per questo le (poche) note stonate balzano subito all’occhio dello spettatore più avvezzo.
Plauso d’onore per la colonna sonora, vero punto di stacco rispetto alle controparti giapponesi in cui era assente: per tutta la durata del film, infatti, rieccheggia una nota baritona, continua, a metà strada tra un ronzio e un borbottio incessante proveniente da qualche dimensione infernale. Passare più di un’ora ad ascoltare questo suono (che per la maggior parte del tempo è il solo suono che fuoriesce dal televisore) diventa un’esperienza quasi mistica, ipnotica.
Anche se la scena più agghiacciante resta quella che Stephen Biro relega al minuto finale; una manciata di secondi, tra l’altro i soli a non grondare sangue e violenza, in cui di fatto non accade nulla eppure bastano a far rizzare i peli sul collo.
Poi tutto va a nero e iniziano a scorrere i titoli di coda, ricordandoci che tutto quello che abbiamo visto era solo un film. Era tutto finto. Ma “quel pianto” che seguita incessante a riecheggiarci nelle orecchie è tra le cose più disturbanti dell’intera saga.
Genere: estremo, horror
Paese, Anno: USA, 2014
Regia: Stephen Biro
Sceneggiatura: Stephen Biro
Fotografia: Jim Van Bebber
Montaggio: Stephen Biro
Interpreti: Eight The Chosen One, Scott Gabbey,
Jim Van Bebber, Rogan Russell Marshall
Colonna sonora: Kristian Day, Jimmy ScreamerClauz
Produzione: Sai Enterprise
Durata: 73'