Può un film fare fisicamente male allo spettatore? Se credete che la risposta sia no, vi sbagliate di grosso. E non è necessario addentrarsi in qualche anfratto estremo per averne la prova: pensate a tutte le volte che avete sibilato di dolore vedendo un ago entrare in vena, da Pulp Fiction a Trainspotting.
Oppure, rimanendo nell’ambito dell’horror classico, c’è una scena de La Casa in cui è impossibile non provare male fisico: Tom Sullivan aveva studiato anatomia e suggerì a Sam Raimi di conficcare una matita nella caviglia di una delle ragazze per torturare il pubblico, in una scena che, a 40 anni di distanza, fa ancora il suo effetto! Idem per molte delle sequenze in cui il Dr. Feinstone si accanisce sulle sue vittime nel dittico de Il Dentista di Bryan Yuzna. Perciò sì, un film può infliggere sofferenza fisica nello spettatore.
Ora prendete tutte queste sensazioni, decuplicatele per un film intero ed elevate la loro intensità alla massima potenza. Solo così avrete una vaga idea di cosa si provi a vedere Bloodshock, secondo capitolo della saga americana di Guinea Pig.
La sceneggiatura di Stephen Biro (che cede la regia a Marcus Koch, effettista dal lunghissimo curriculum, curatore anche degli SFX di Bouquet of Guts and Gore) può sembrare il solito canovaccio, che riprende l’idea di The Devil’s Experiment, capostipite della saga: un uomo viene torturato all’inverosimile per testare la resistenza psico-fisica dell’essere umano.
Ma valutare il film solo in rapporto al dolore inflitto (sullo schermo e allo spettatore) sarebbe a dir poco riduttivo, oltre che tipico della critica generalista. Perciò andiamo con ordine, perché qui c’è tanto dolore, è vero, ma i film sono opere d’arte e American Guinea Pig – Bloodshock è arte. Non ne siete convinti? Ve lo dimostro.
Bloodshock è uno stacco netto rispetto ai 7 capitoli precedenti. Innanzitutto per la sua durata di 98 minuti, che ci pone non più davanti a un corto o a un mediometraggio, ma a un lungometraggio vero e proprio.
E, per ribadirlo, sin dalla prima scena, ci viene presentato in un bianco e nero carichissimo, allucinato e allucinante. È vero, tanti film recenti sono stati girati in b/n, ma nella maggior parte dei casi, da Roma a Malcolm and Marie, fino alle versioni virate di Parasite e Logan, è solo un vezzo d’eleganza che non aggiunge nulla al racconto. Qui invece la scelta risulta funzionale per svariati motivi, non ultima come chiave narrativa e interpretativa. Perciò via la patina amatoriale, l’aura da finto snuff, il desiderio di sembrare “vero” a tutti i costi; questo è un film e come tale ci vuole raccontare una storia, non solo inanellare torture e sadismo.
La scena iniziale ci da un’idea chiara del contesto: un uomo, vestito con un camice da ospedale, viene immobilizzato a una specie di sedia da dentista, gli viene amputata la lingua (vediamo tutto nel dettaglio, con un livello di realismo che Hollywood può solo invidiare) e messa in un barattolo accanto a molte altre, capendo che l’uomo non è il primo e di certo non sarà l’ultimo.
Con questa sequenza Marcus Koch ci dice che non ci risparmierà niente sul piano visivo. Che nella logica dell’escalation cinematografica, dove le scene vanno ad aumentare d’intensità, questo è solo l’aperitivo. Che non ci saranno urla isteriche o pianti incontrollabili. Che tutto si svolgerà in silenzio, ovattato da una pace estatica scandita dal ticchettio incessante di un metronomo.
Le battute sono pochissime e superflue, si contano letteralmente sulle dita di una mano (anche qui: quanti film contemporanei possono vantarsi di saper raccontare una storia solo per immagini? Se questo non è cinema allo stato puro, allora non so cosa lo sia) e a dominare è il sound design, ancora più accurato e snervante di quello del capitolo precedente.
Quanti hanno gridato “genio!”, “capolavoro!”, “bis!” alla colonna sonora di Hans Zimmer di Dunkirk, tutta giocata sul ticchettio che rimanda allo scorrere del tempo, riflettendo i diversi piani temporali della contorta narrazione di Nolan? Kich fa la stessa cosa, ma in un film indipendente, senza Zimmer e con due anni abbondanti di anticipo. Così, per dire.
Ogni volta che l’uomo torna nella sua cella imbottita trova ad attenderlo un bigliettino (che dovrà poi ingoiare per non insospettire gli inservienti) segno che non è solo in quel calvario: nella cella accanto vi è infatti una ragazza sottoposta al medesimo trattamento. Quei messaggi diverranno la sola cosa in grado di tenero in vita, il solo faro di speranza in mezzo al mare di disperazione e dolore in cui sta affogando.
Infine (e qui entriamo in zona SPOILER) c’è un terzo colore. Dopo l’ennesima, estenuante tortura, il detenuto si ribella al suo carnefice, gli conficca un bisturi nell’occhio (omaggio ai primi capitoli) e corre a liberare la sua compagna di sventura. Dopo oltre 70 minuti di torture vi è un attimo di tregua; il film rallenta, prende respiro, c’è persino un accenno di note musicali nella colonna sonora e il b/n lascia spazio al rosso. Il colore ritorna parzialmente, a poco a poco, così come le emozioni che rendono vivi i due personaggi mentre si abbracciano, accarezzandosi a vicenda. È un momento dolce, delicato. Ferite e sangue si tingono di scarlatto, simbolo sia del dolore appunto, ma anche di passione e amore. Eros e Thanatos che si fondono donando poesia al film.
È impossibile non provare pietà ed empatia per questi due esseri (a questo punto non è più nemmeno possibile chiamarli umani) che hanno attraversato letteralmente l’Inferno. Poi il film riprende la sua corsa nel rush finale con una delle scene di sesso più malate e meno erotiche apparse sullo schermo, eppure al contempo stracolma di simbolismo e sentimento: un tripudio scarlatto di passione, dolore e cannibalismo.
Nero. Titoli di coda. Diretto da Marcus Koch.Ma pensate davvero che sia finito così? No perché, inframezzata ai titoli vi è una sequenza che getta nuova luce su tutto l’orrore a cui si è assistito, ribaltando del tutto la prospettiva del film. Una chiave di lettura che invita a riflessioni sociali, denunciando i metodi rieducativi (inefficaci) adottati dagli istituti penitenziari: i detenuti sono abbandonati a loro stessi, la società li rifiuta, la gente comune non li vuole per le strade
Quindi sì, American Guinea Pig: Bloodshock è un’opera d’arte. Chi l’ha realizzato ha una perfetta padronanza del linguaggio cinematografico, sia narrativo sia tecnico, e sotto ogni aspetto questo film risulta nettamente superiore a tanti presunti capolavori che ciclicamente vengono eletti tali dal popolo di internet e non. Il Joker (lo chiamo in causa solo per il suo taglio sociopolitico, ma l’esempio è applicabile a qualsiasi altro titolo del genere) è solo un buon film. Bloodshock invece è un capolavoro. Change my mind.
Genere: estremo, horror
Paese, Anno: USA, 2015
Regia: Marcus Koch
Sceneggiatura: Stephen Biro
Montaggio: Peter Bernie Rogers
Interpreti: Eight The Chosen One, Scott Gabbey,
Jim Van Bebber, Rogan Russell Marshall
Colonna sonora: Kristian Day
Produzione: Unearthed Films
Durata: 98'