Il nuovo film di Gabriele Mainetti non è perfetto, ma si carica sulle spalle 20 anni di pregiudizi sul cinema italianoÂ
Freaks Out è orgoglio tricolore allo stato puro. Non è un film perfetto, ma è un film che - da solo - si carica sulle spalle 20 anni di pregiudizi e cerca di scardinarli uno per uno. E incredibilmente ce la fa. Anche se il dovere costantemente dimostrare qualcosa è anche il suo più grande limite.
Già con Lo chiamavano Jeeg Robot, Gabriele Mainetti aveva dimostrato che era possibile virare la formula Marvel in salsa nostrana, regalando al pubblico qualcosa di più unico che raro. Non a caso non ci sono più stati - né sono in programma - altri film di supereroi italiani (Il ragazzo invisibile non è nemmeno preso in considerazione in questo discorso, figuriamoci il suo sequel).
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A sei anni di distanza Mainetti alza notevolmente il tiro, realizzando la storia di un circo di mostri che, d’un tratto, si ritrovano senza circo a vagare per una Roma distrutta dai bombardamenti e infestata da nazisti.
È una storia da fumettone, anche se non necessariamente un cinecomics: potrebbe anche essere uno di quei volumi alti, cartonati, con un bel po’ di backstage in appendice e un prezzo esorbitante impresso sul retro della copertina. Insomma, un volume da collezione.
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E, in effetti, l'odore della carta stampata trasuda letteralmente dallo schermo: il film di Mainetti profuma di pagine ingiallite, come un volume ritrovato per caso nella soffitta del nonno o in qualche mercatino dell’usato. Qualcosa di raro e prezioso, ma soprattutto qualcosa di ammaliante.
Gabriele Mainetti vuole dimostrare che Lo chiamavano Jeeg Robot non è stato frutto di strane congiunzioni astrali, bensì qualcosa realizzato con cura e perizia da gente - Mainetti e lo sceneggiatore Nicola Guaglianone - con una profonda conoscenza della materia.
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Un film a cui i due sono arrivati dopo cortometraggi come Basette e Tiger Boy, che battevano più o meno sullo stesso chiodo: fare un cinema diverso in Italia. L’incetta di David di Donatello, Nastri d’Argento e svariati altri premi ha dato loro ragione. E, oggi, Freaks Out pare destinato a replicare.
La scena iniziale di Freaks Out è cinema allo stato puro: un pianosequenza che ci introduce i cinque protagonisti durante un loro spettacolo, all’apice della loro gloria: una scena in grado di farti ribaltare le viscere e diventare lucidi gli occhi.
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Cinematograficamente parlando è qualcosa che pesca a piene mani dal miglior Spielberg degli anni ’80 (quante Spielberg-face ci sono tra il pubblico, sia del circo che in sala?), unito all’amore per i freak a cui ci ha abituati il buon Guillermo del Toro. E poi, appena un circo appare sullo schermo è subito Fellini e Burton. Insomma... è cinema.
Quando il tendone viene spazzato via da bombardamenti, questo luogo idilliaco scoppia come una bolla di sapone, esponendo i suoi abitanti, i mostri, alla cruda realtà ; mettendoli faccia a faccia con mostri ben più crudeli e reali.
Questo è il secondo banco di prova: fare cinema d’autore - dal punto di vista della messa in scena, ma anche di molti temi toccati - e popolare insieme. Un cinema che porti in scena i drammi personali dei protagonisti (come l’essere degli emarginati alla stregua degli X-Men) sia quelli storici (tutta la sottotrama legata alla deportazione di Israel). Che per i nerd è come se fosse un gol a porta vuota - qualcuno ha detto Magneto? - ma provate a farlo capire all’italiano medio.
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Freaks Out è un’opera di genere, ma anche d’autore, d'intrattenimento, ma anche impegnata, che parla di superpoteri, ma anche della guerra. Scusate se è poco.
Mainetti e Guaglianone cercano di mantenere per tutto il film - a volte riuscendoci in modo egregio, altre un po’ meno - una doppia chiave di lettura, mischiando fantasy e film storico, esattamente come aveva fatto del Toro ne Il labirinto del Fauno.
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Da una parte ci sono i freaks visti come una rivisitazione dei protagonisti de Il Mago di Oz (ma c’è anche un bel po’ di Pinocchio e a più riprese l’adattamento di Matteo Garrone pare condividere lo stesso universo fantasy-reale del film di Mainetti) e tutta quest’aurea fiabesca e idilliaca; dall’altra ci sono picchi di violenza, sesso e nudità che farebbero svenire i dirigenti Disney.
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Mainetti sembra voler dimostrare nello stesso film di essere capace di dirigere sia un cinecomics per ragazzi, tratteggiato con delicatezza a volte disarmante (in senso buono), sai uno per adulti (alla Logan per intenderci) con un linguaggio e una messa in scena visiva più audace.
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Non sempre queste due anime riescono a combaciare perfettamente però e questo, forse, è il più grande difetto del film: la sua indecisione sul target per cui vorrebbe accontentare praticamente tutti.
Poi c’è la voglia, come nei film degli anni ’80, di creare un villain che risulti più catalizzante dei protagonisti. Tipo: chissenefrega di He-Man se il cattivo è Skeletron, chissenefrega di Gizmo se dall’altra parte hai un’orda di Gremlins, chissenefrega di Jeeg se il cattivo è Lo Zingaro.
Franz è un antagonista sfaccettato, psicologicamente impeccabile, combattuto tra la voglia di essere accettato dal Reich e lo status di mostro emarginato. È uno che in piena Seconda Guerra Mondiale intrattiene il pubblico suonando Motorhead e Guns n Roses al pianoforte, che occasionalmente ha dei trip mentali in cui vede un futuro (che non riesce a interpretare) alla Black Mirror, nemmeno fosse il protagonista de La zona morta di Stephen King.
Infine c’è la voglia di reclamare il nostro tricolore. Perché Freaks Out è ambientato a Roma, è parlato tutto in una centrifuga di dialetti e accenti ma mai - nemmeno per un secondo - c’è il dubbio di stare guardando qualcosa proveniente da oltreoceano.
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E menomale! Quando i Partigiani prendono in custodia la piccola Matilde, portandola con sé nei boschi, tra la nebbia, intonano Bella ciao, ovviamente. Intridono le parole di rabbia, quella rabbia che storicamente apparteneva a questo canto di resistenza, ma che i media moderni (sì, parlo con te Casa di Carta) hanno spogliato, laccato e ricontestualizzato.
Mainetti dice no. Mainetti dice: questa è roba nostra! Mainetti ci ricorda ciò che noi italiani siamo stati e possiamo essere ancora, se vogliamo.«Una mattina mi son svegliato e ho trovato l'invasor»: l’invasore in questo caso sono la sfilza di cinecomics patinati, tutti uguali, tessere di un puzzle o episodi di una serie tv, che affollano gli schermi avidi di incassi.
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Ma se quei soldi andassero al nostro cinema forse sarebbe possibile realizzare più prodotti di questo calibro, no? È questo che sembra dirci Mainetti. In risposta possiamo solo dire grazie.