In memoria di Kim Ki-duk, scomparso l'11 dicembre 2020, un'analisi di Arirang: un dramma e non un documentario, come lo stesso regista lo ha sempre definito.
Un anno fa è scomparso Kim Ki-duk. L’11 dicembre 2020 apprendiamo dal web, con una notizia di delfi.lv, che il regista sudcoreano, prossimo ai suoi 60 anni (li avrebbe compiuti il 20 dicembre 2020) è morto a causa del Covid, in Lettonia, dove si era recato per fare dei sopralluoghi per un suo prossimo film.
Tra tutte le opere di Kim Ki-duk, oggi, ci piace ricordare Arirang, un dramma e non un documentario come lo definisce lo stesso interprete e autore Kim Ki-duk. Nel 2011, presentato al Festival di Berlino, il film vince l’Orso d’Argento.
Arirang, il film per ricordare Kim Ki-duk
Il film esce dopo 3 anni di silenzio nei quali, appunto, Kim Ki-duk si era ritirato, isolato dalla città e dal cinema, a causa dell’episodio drammatico accaduto nel suo ultimo film, Dream, 2008. «Che cosa sono i film? Se qualcuno morisse a causa di immagini e storie che io ho creato, sarebbe davvero terribile», domanda la voce in Arirang.
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Il riferimento è appunto, al caso suscitato nella lavorazione di una scena del film nella quale la giovane protagonista, in una cella di prigione, tenta il suicidio per impiccagione; il nodo scorsoio del cappio però non lascia spazio al respiro della giovane attrice che rischia veramente l’asfissia e sviene durante la ripresa. Evidentemente il caso esce dal set e raggiunge la cronaca, quella più spietata nei confronti del regista, di cui non si è mai esitato, almeno in patria, a classificarlo tra quelli più audaci e impopolari.
Arirang racchiude il periodo più buio della vita cinematografica di Kim Ki-duk. Tradito anche dai suoi collaboratori più stretti, pronti a firmare contratti con le grandi aziende, in coreano chaebol, e defilare il cinema indipendente. Il regista sudcoreano resta solo, si sente solo, è solo. L’immagine della locandina è una foto estratta da una delle prime sequenze del film in cui appaiono i piedi del regista all’uscita dalla baita. I calli sui talloni, i tagli di cui sono tappezzati indicano il trascorso di viaggiatore, di camminatore nel mondo e anche di chi, con fatica, porta il peso del proprio destino poggiato su due semplici piedi.
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Arirang è il docufilm con il quale Kim Ki-duk racconta la fatica del suo fare ed essere cinema, la fatica umana di chi, fuori dal grande sistema, non riesce più a comunicare con chi del grande sistema fa il suo comodo alloggio. Non ultimo dei temi, Kim Ki-duk esprime in Arirang una possibilità , quanto meno la sua possibilità , di redenzione rispetto alla mancanza di cui si sente in debito verso la vita stessa.
Il film della crisi
Arirang è la melodia nostalgica che canta il desiderio di unificazione. Sia pure in molte versioni nella tradizione folk della Corea del Sud, le parole sussurrate e cantate da Kim Ki-duk assomigliano a quelle del canto di un amore perduto. Ciò che è necessario unificare con Arirang è l’uomo Kim Ki-duk: regista, montatore e produttore, sudcoreano, cittadino del mondo. Due parole insistenti in Arirang: «Ready! Action!».Â
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Una casa, la baita sulle colline di Seoul; una tenda interna; cachi ancora acerbi: si sveglia, esce dalla casa, guarda il paesaggio, prepara la legna per la stufa, raccoglie radici secche, ritorna e fa il caffè. Un gatto rosso si insinua alla porta, miagola. Miagola anche il regista. Accende il fuoco, cuoce le radici, mangia. Torna nel luogo, più privato della sua baita, la tenda: c’è un PC, una tastiera, materiale di lavoro. Arriva sera, prepara la cena, mangia. Ancora giorno, ancora sera. Guarda il gatto mangiare, lui beve e si rintana nel suo luogo notturno, la tenda. Bussano. Apre la cerniera. Va alla porta, non c’è nessuno. Ritorna nella tenda. Bussano. Apre la cerniera. Non c’è nessuno. Resta seduto nella tenda. È un nuovo giorno, sono passati anni. Esce dalla casa, fa i bisogni del mattino in mezzo ai campi, raccoglie dei frutti, si lava con la neve sciolta, fa il caffè (Illi caffè, per la precisione), si pettina, fa il codino.Â
«Ready! Action!» sono le prime parole che pronuncia. Per Kim Ki-duk non poteva essere altrimenti, perché per lui è differente: il cinema non è un lavoro, è il lavoro che è chiamato a fare nella vita. Per questo, non esercitandolo non trova ragione della sua stessa esistenza. Quella forza estranea che prima ha bussato, ora parla: è un’ombra, l’ombra del regista, l’ombra della sua coscienza.
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E domanda: «Kim Ki-duk che cosa stai facendo?». La macchina da presa si è stretta sul suo viso. «Perché ora non puoi girare un film? Che problema hai?». Il regista risponde: «Ora non posso girare film. Quindi riprendo me stesso. Riprendendo me stesso, voglio confessare la mia vita, come regista e come essere umano. Giro un film su me stesso. Potrebbe essere un documentario, un film drammatico o di genere fantastico. Posso interpretare i personaggi che vorrei protagonisti dei miei film, oppure posso prendere la videocamera e filmarmi. Non c’è nulla di programmato ma ho bisogno di filmare qualcosa per essere felice. Quindi filmo me stesso».Â
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Per il regista sudcoreano, il cinema è un bisogno primario: come mangiare, bere, dormire e defecare. La voce è continua: «Non stai girando film? Lasci perdere tutto? Alla gente dispiace che tu sia così…il regista di fama mondiale»
Kim Ki-duk, cinema e vita
È vero infatti che Kim Ki-duk è stato tra i primi registi sudcoreani ad aver ricevuto premi internazionali: ricordiamo che nel 2000 con The Isle, L’isola, arriva in concorso al Festival di Venezia, direzione di Barbera. Puntando sul cinema coreano, Barbera dice di lui: «non c’era dubbio che dietro la macchina da presa ci fosse un regista con una forte personalità , con un suo sguardo, con un suo modo di girare». Certamente l’impatto con il pubblico e la critica italiana è forte: durante la proiezione del film, in sala una donna sviene, suscitando un clamore inaudito. Il film non risparmia certo le forti impressioni, soprattutto il primo piano agli ami prima conficcati nel sesso della protagonista e poi estratti, sia pure con la dovuta cura, ma comunque grondanti di sangue.
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Nel 2001 Venezia ritrova Kim Ki-duk in concorso con Uddress Unknown, mentre sarà nel 2003 con Ferro 3 - La casa vuota che vince il Leone d’Argento per la Migliore Regia. Il Leone d’Oro gli sarà consegnato nel 2012 con Pietà , non a caso una storia di violenza e redenzione appena successiva ad Arirang.
La redenzione di Kim Ki-duk
La voce di Arirang è insistente, riconosce e rende pubblico quel sopravvivere di Kim Ki-duk che non riesce più a vivere pienamente, come si conviene a un essere umano. La voce di Arirang è la provocazione etica dell’uomo richiamato al suo divenire uomo. Nell’esperienza umana c’è, e riveste un ruolo fondamentale, la domanda. La domanda aiuta a fare esperienza del/nel mondo, oltre il presente. Spinge l’uomo ad aprirsi all’Altro, cioè a quella dimensione spirituale che lo abita nel profondo.
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La tenda è la caverna nella quale possiamo scorgere una certa descrizione della coscienza, un’allegoria perfetta al pari di quella del celeberrimo racconto di Platone. Per Kim Ki-duk la luce del sole è la telecamera.
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È l’occhio vigile e attento capace di scrutare la verità del mondo, e se spenta, il mondo non è più visibile, non c’è più nulla di vero. Tutto sembra essere solo una routine per sopravvivere a un tempo di oscurità . Si spiega, pertanto, il tormento interiore del regista che ha la necessità di accendere la spia del led dell’occhio digitale, di vedersi in uno schermo, di sentire la sua eco da un altoparlante. Solo così può esistere davvero.Â
Arirang, come una preghiera, un’invocazione di aiuto, un inno penitenziale che nasconde il desiderio della riconciliazione verso una vita dominata dalla violenza e dal sopruso: «Questo mondo scellerato/amore mio indifferente/il tuo affetto è rimasto qui, ma tu te ne vai/non posso fare a meno di piangere/ari… ari… ara… ryo/sulle colline Arirang mandami per favore».
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Kim Ki-duk conclude così il suo canto ultimo: «Gli onori non ce li portiamo né in paradiso né all’inferno. La gente vive la vita. anche se gli eventi vengono registrati le persone del passato non sono più. Il fatto di aver lasciato un segno non è una garanzia di felicità nell’aldilà ». Noi lo speriamo però.Â