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Un eroe (2021), la recensione: il film "neorealista" del regista iraniano Asghar Farhadi

14/12/2021 18:00

Rita Ricucci

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Un eroe (2021), la recensione: il film "neorealista" del regista iraniano Asghar Farhadi

Il regista iraniano torna sullo schermo con una storia drammatica già in lista per essere presentata agli Oscar 2022.

In sala da gennaio l’ultimo film di Asghar Farhadi, Un eroe. Dopo i due Premi Oscar, nel 2011 con Una separazione e nel 2016 con Il cliente, il regista iraniano torna sullo schermo con una storia drammatica già in lista per essere presentata agli Oscar 2022.

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Siamo a Shiraz, Iran. Rahim Soltani (il sorprendente Amir Jadidi) ha contratto un debito che poi non è riuscito a saldare. Così Rahim sta scontando 3 anni di carcere. Ex pittore di insegne e calligrafo, è stato inserito nelle attività culturali della prigione per abbellire le mura che lo circondano. 

Fuori dai cancelli ci sono un figlio, teneramente balbuziente, che ha in custodia sua sorella dopo la separazione dalla ex moglie, Farkhondeh (una splendida Sahar Goldust), la logopedista di suo figlio, di cui si è innamorato e dalla quale è ricambiato.

 

Rahim esce con un permesso di due giorni, ansioso di incontrare, ancora in gran segreto, la sua amata Farkhondeh, la quale sembra offrirgli la possibilità di riparare al suo debito: alcune monete d’oro ritrovate in una borsa perduta alla fermata dell’autobus. 

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Asghar Farhadi riscrive e adatta al cinema una storia vera, un fatto di cronaca. Alla sceneggiatura collabora anche sua figlia Samira Farhadi che appare nel film nella piccola ma significativa parte di Nazanin, la donna proprietaria (?) della borsa perduta. 

 

Un eroe è una faccenda umana singolare, misurata dall’ansia del lieto fine e dall’esausta costanza con la quale il protagonista cerca di affermare la verità. Ma quale verità? È la domanda insistente, persistente nel film alla quale anche lo spettatore è chiamato a rispondere.

 

Infatti, il processo di decompressione per Rahim avviene subito: una speranza inaspettata lo dipinge nei primi piani, all’interno dell’auto, con un sorriso contagioso perché autentico e una sincerità alla quale non si resiste nel tifare per lui. 

Rahim è un uomo molto coscienzioso e responsabile e ha un ripensamento: come è possibile scagionarsi a scapito di qualcun altro (cioè di colei che ha perduto la borsa?). Ma se lui non ce la fa ad approfittare della situazione, a farcela invece è il sistema che gli sta intorno: le guardie carceriere, i giornalisti, i vicini. Ognuno riscrive la verità secondo la propria interpretazione e il proprio vantaggio.  

 

Ecco che il costume, il regime vigente in Iran entra in campo in modo massiccio. Tra ciò che viene reso pubblico e ciò che rimane del privato non c’è più separazione: il suo pentimento, la sua redenzione dovrà essere plateale per essere accettata dal suo creditore, Bahram, il serio e convincente Mohsen Tanabanden, incredulo e scettico di ogni affermazione.

 

Mass media, stampa, e social network si muovono sistematicamente dietro il protagonista il quale viene travolto in un vortice di confusione che lo destabilizza: non sa più se la verità di ciò che sa è la verità da credere piuttosto che credere alla verità che gli viene offerta di dire. Rahim si blocca solo quando l’accanimento del piccolo occhio digitale della telecamera di uno smartphone si riversa sul figlio, Hossein( il tenero e amabile Alizera Jahandideh), che lo costringe a pronunciare la difesa del padre nonostante l’evidente imbarazzo dovuto alla balbuzie.

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A sostenere il ritmo del dubbio, e poi la conferma, e poi la smentita, e ancora la conferma, è la regia sorprendente del regista iraniano in un’alternanza di colpi di scena a suon di battute e sguardi dove tutti potrebbero perdersi senza più seguire la vera verità.

 

La memoria dello sguardo del piccolo Hossein fa eco alla memoria di Bruno, il figliolo di Antonio, in Ladri di biciclette di Vittorio De Sica. Così il film ha il gusto del neorealismo, di quella disperazione proverbialmente detta: l’occasione fa l’uomo ladro. In una Shiraz dal gusto mediterraneo, con un sole che illumina strade da ricostruire e viottoli di case che ancora sono solo ripari per derelitti. Anche il bazar dove c’è la bottega di Bahram non è distante dal mercato dove Antonio cercava a tutti i costi la sua bicicletta rubata.

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Quello che emerge dal film di Asghar Farhadi è l’essere Un eroe nella preservazione della propria integrità morale, rinunciando al successo mediatico, all’incalzare dei like, rinunciando all’uso indebito della fragilità dei più deboli.

 

Un eroe è un uomo innalzato a tale condizione in pochi giorni, un uomo frantumato in mille pezzi in pochi secondi di visualizzazioni sui social. Il dilemma di cui parla Farhadi sembra essere quello che declina l’aspetto della dimensione pubblica come una collettività assetata di eventi prestigiosi e quella privata, deturpata, che fa fatica ad essere difesa: la differenza di ciò che si dice di Rahim e ciò che lui, assieme allo spettatore, sa di sé stesso, è lo sgomento che leggiamo negli occhi del protagonista che sempre meno lentamente perdono il sorriso accattivante e si infoltiscono di malessere e di oscurità.

 

Nell’era digitale globalizzata la verità è sospesa in un cloud inaccessibile e condizionato dalla personalità di ciascuno che la guarda. In Iran sembra perdersi il confine da fake & true fino a far desiderare a Rahim che ha suscitato un’empatia unica con lo spettatore, di ritornare tra le mura dipinte del carcere, come Un eroe, rimanendo fedele alla propria verità.


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Genere: drammatico

Titolo originale: Ghahreman

Paese, anno: Francia/Iran, 2021

Regia: Asghar Farhadi

Sceneggiatura: Asghar Farhadi

Fotografia: Ali Ghazi

Montaggio: Haydeh Safi-Yari

Interpreti: Alireza Jahandideh, Amir Jadidi, Ehsan Goodarzi, Fereshteh Sadrorafaii, Maryam Shahdaei, Mohsen Tanabandeh, Sahar Goldust, Sarina Farhadi

Produzione: Arte France Cinéma, Asghar Farhadi Production, Memento Films Production

Distribuzione: Lucky Red

Durata: 127'

Data di uscita: 05/01/2022

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