Non è un buon segno quando, per non vedersi costretti a liquidare un film in poche righe, si ritiene necessario affidarsi all'aneddotica più spicciola. È quello che succede, purtroppo, con il film in questione: raccontare della tortuosa produzione del film, spesso messa in discussione dal persistere della malattia che avrebbe in seguito costretto Lucio Fulci ad abbandonare – non senza polemiche – il set di Zombi 3, oppure della cronica assenza di fondi, che orientava ogni scelta dei produttori verso l'alternativa più economica possibile (lo si vede nella scelta di location e attori, tutti appartenenti alla Jugoslavia di allora), sembrano essere le uniche modalità possibili per circondare Aenigma dell'alone, inconsistente seppur fascinoso, del film maledetto. Anche perché, lo ribadiamo, sul film in sé c'è poco da dire. Fulci, tornato all'horror dopo alcune puntate interlocutorie in altri generi (la fantascienza de I guerrieri dell'anno 2072, addirittura il softcore di Il miele del diavolo), non sembra riuscire a dare una direzione definita alla sceneggiatura (scritta dallo stesso regista assieme al fidato Giorgio Mariuzzo), troppo a lungo combattuta tra l'omaggio a Carrie – Lo sguardo di Satana e quello a Patrick, film australiano uscito una decina d'anni prima in cui un giovane comatoso ricoverato in una clinica sviluppava poteri psicocinetici che non esitava a mettere in pratica. Rimangono solo l'innegabile mestiere, oltre alla consueta abilità del regista nel fare – ci perdonerete l'espressione – le nozze con i fichi secchi; ma nonostante Aenigma sia ben distante dall'essere uno dei peggiori film mai girati, la povertà di idee e di mezzi lo priva anche di quelle sequenze memorabili che, in altri casi, ci hanno permesso di giudicare con benevolenza film similarmente sgangherati. Qui, di memorabile, c'è giusto la morte “per lumache” di una collegiale, unico, flebile sussulto lungo novanta minuti di noia avvolti nell'orribile bluastro della fotografia e accompagnati da una colonna sonora che condensa quasi tutto il peggio che gli eighties avevano musicalmente da offrire (con menzione particolare per l'atroce Head Over Heels di Douglas Meakin, presente sia nei titoli di testa che in quelli di coda).