Sesso e amore possono condividere lo stesso letto matrimoniale? È ciò che si domanda il sempre più diretto Tinto Brass, pioniere italiano dell'anarchismo filmico (qualcuno ricorda Chi lavora è perduto del 1963?) e dell'erotismo esplicito. Lasciate alle sue spalle le vesti di regista "politico", negli anni '80 viene ribattezzato l'alfiere del piacere: sforna nel frattempo successi commerciali come La Chiave e Paprika, in contrapposizione alla pioggia di critiche che si è sempre portato dietro. Il film - liberamente ispirato dal romanzo di Alberto Moravia (1985) - narra di Edoardo, detto Dodo (Fabio Casale), giovane docente di letteratura francese che viene temporaneamente abbandonato dalla moglie (Katarina Vassilissa) senza una ragione apparente. Corroso dalla gelosia, diventa un assiduo cultore di voyeurismo e scopofilia. Questa la trama esile che permette al regista di calarsi nei panni del poeta impostore, poiché i rimandi a Mallarmè e Baudelaire non arricchiscono - anzi sviliscono - possibili innesti intelletuali. Le musiche di Riz Ortolani si integrano discretamente al girato, in sintonia con la fotografia ed il montaggio (quest'ultimo realizzato durante un momento di massima creatività per il regista veneziano). Brass altro non fa che dipingere un burrascoso rapporto padre-figlio, e poggia la narrazione sul filo, neppure tanto sottile, dell'eros. Il voyer è così attore e spettatore: si lascia sopraffare dalle inquadrature piccanti e provocatorie, ammaliato sempre più dall'incastro di rotondità perfette e virili forme falliche. Privo di inibizioni e volontariamente pretestuoso, L'uomo che guarda abbandona le credenziali di una classica visione hard per lasciare sul finale spazio - nè troppo invadente, nè superficiale - ad una leggera, ma neppure tanto prevedibile, riflessione sul rapporto di coppia.