Godzilla è un'icona per i giapponesi, non solo per l'imponenza del personaggio ma per ciò che rappresenta. Risposta sci-fi al Progetto Manhattan in sviluppo durante la seconda guerra mondiale, la prima apparizione del mostro cinematografico risale al 1954 nell'omonimo film di Ispiro Honda, esperimento che diede il via libera alla creazione di cloni più o meno riusciti, film di serie B, prodotti amatoriale e spin-off da ogni parte del mondo.
Nel colossal americano firmato da Roland Emmerich (Independence Day, L'alba del giorno dopo), Godzilla nasce perché investito da radiazioni atomiche, come nell'originale. Dove tradisce la tradizione è nel luogo di scontro: Manhattan - vista la sua adattabile planimetria - prende il posto di Tokyo, sulle cui strade avvengono inseguimenti a folli velocità (vergognosamente simili a Jurassic Park di Steven Spielberg), e nei cui palazzi vengono raccontate favolette d'amore, marchiate dalla direzione un po' banalota e frettolosa di Ememrich, qui visibilmente stanco, sia dal punto di vista ludico che cinematografico.
Sia chiaro, gli effetti speciali sono imponenti (per l'epoca) e non lasciano indifferenti: il film scorre veloce grazie a sequenze ricche di azione e distruzione, dove la forza bruta molto spesso batte a tavolino le strategie militari e psicologiche. Lo scontro uomo-mostro si gioca sul piano prettamente fisico, ed ciò che lo rende così piatto e superfluo. Rimangono infatti solo le tonnellate di computer grafica usate per rendere imponente un mostro che nella mitologia orientale dimostra di possedere una sua coscienza, al di là dell'aggressività imposta qui da un plot narrativo inconsistente. Inutile dunque mettere il dito nella piaga: lo script è banale e le performance svogliate degli attori. Roland Emmerich è incapace di rinnovare il mito: nel suo film, Godzilla distrugge tutto, tranne i cliché. Povero di contenuti ma spettacolare, caotico ma noioso: un film insomma che vive di mostruose contraddizioni.