Il capolavoro di Dziga Vertov è quello che, meglio degli altri, ne sublima il credo estetico-cinematografico, anticipato dal testo del manifesto dei kinoki (alla rivoluzionaria nell'ambito del cinema d'avanguardia russo) e quindi formulato in via definitiva in quello che lo stesso regista definì “cine-occhio”. Di fatto la rinuncia alla trama è completa: non solo mancano le didascalie, ma manca proprio un soggetto alla base delle immagini del film. Il soggetto, quindi, diventa un film stesso: e quindi ci si trova davanti, più che a un film, ad un trattato di metacinema, ad un cinema che si interroga sulle proprie capacità e sulle modalità di espressione. Modalità che rifuggono dalla mimesis della realtà, sia dal punto di vista narrativo (come detto, è solo la forma il vero contenuto dell'immagine cinematografica), che dal punto di vista estetico. Le immagini di Vertov, selezionate e montate con un chiaro gusto futurista, rifuggono dalla realtà fenomenica e propongono un nuovo tipo di cinema, distributore di immagini di vita reale universalmente comprensibili. Un cinema più teorico che pratico, che può quindi soffrire della sua natura di manifesto nel momento in cui si parla di semplice fruizione: ma il frenetico montaggio di immagini, la sintesi che si crea tra immagini e accompagnamento musicale (il più diffuso è quello di Michael Nyman, il più bello – a parere di chi scrive – è quello eseguito dalla Alloy Orchestra, fedele alle indicazioni lasciate da Vertov stesso), risulta ad ogni modo affascinante. Nonostante la freddezza di fondo, e un compiaciuto formalismo - critiche che peraltro hanno accompagnato buona parte della produzione vertoviana -, L'uomo con la macchina da presa rimane un'opera che porterà a conquiste fondamentali per l'evoluzione futura del cinema, documentario e non.