Lascia senza dubbio il sorriso sulle labbra questo documentario-biografia del calciatore che più ha fatto parlare di sé durante e dopo la sua carriera, quest'ultima più simile ad un’odissea (proprio lui novello Ulisse in viaggio fra Sudamerica, Europa e la tanto amata Cuba) costellata da ascese e cadute fulminee piuttosto che ad una storia di calcio come tante altre. Quando si sposta l’obiettivo sul “Pibe De Oro” si è ben consci che il pallone è soltanto uno sfondo da cui partire per analizzare prima di tutto uno splendido fenomeno sociale.
Eccellente nella realizzazione di un’idea tutt’altro che facile (parlare di Diego Armando Maradona da un punto di vista diverso e meno calpestato da altri media), Emir Kusturica riesce a fornirci l’essenza più profonda del campione argentino, la multiformità, il genio e la voglia di viaggiare tanto cari all’eroe omerico di cui sopra, consegnandolo di diritto (se ce ne fosse ancora bisogno) nel limbo degli dei. “La mano de Dios” diventa un’espressione di protesta, un grido rivoluzionario di una nazione in ginocchio che vede nella sua persona e nel calcio l’unica possibilità di riscatto agli occhi del mondo. È un viaggio nell’anima, nella mente e nei ricordi di un uomo e del suo popolo.
Se il fondo monetario internazionale ha umiliato e annichilito paesi come l’Argentina e la Serbia, il riscatto matura nella sera del 22 giugno 1986, quando grazie all’aiuto del suo multiforme ingegno (la “Mano de Dios”) e al suo talento inumano, Maradona sconfigge da solo la potente armata britannica in tempi in cui “Le Malvinas” accecavano d’odio gli argentini nei confronti dei soprusi inglesi. Si vedono cosi i tre volti di quest’uomo: il più grande calciatore di tutti i tempi, il rivoluzionario anti Bush amico di Fidel Castro e l’amorevole, devoto marito e padre di famiglia pentito, distrutto ed amareggiato dai trascorsi del suo passato (toccante il monologo sulle occasioni perse per via della sua dipendenza dalla cocaina). Durante tutto il docu-film si ha la sensazione di veder nascere e svilupparsi una profonda amicizia e stima tra Emir Kusturica e Maradona. I due iniziano a conoscersi e a raccontarsi senza bruciare le tappe (da ricordare l’accoglienza fredda di Diego nei confronti di Emir la prima volta che si sono incontrati in uno show televisivo).
Da una parte i pensieri, le idee e le critiche senza censure di un uomo che non teme l’ostilità dei potenti e che non deve a nessuno tutto ciò che ha avuto. Dall’altra il suo popolo, che lo venera e che crede profondamente ed esasperatamente in lui, meravigliosamente rappresentato dai quadretti della “Iglesia Maradoniana” (culto che si protrae dal 2000) e dall’accoglienza assurda riservatagli apposta dai fedeli napoletani al suo arrivo nella città partenopea. Appena usciti dal cinema si hanno due inconfutabili certezze: la prima (suggerita deliziosamente da Kusturica nell’incipit del film) è che Maradona se non avesse fatto il calciatore sarebbe sicuramente diventato un attore più che degno. La seconda è che sarebbe risultato difficile operare un lavoro di fiction su una vita che già di per sé rappresenta un esempio incredibile di spettacolarità, emozione e profondità. Grande merito al folletto Kusturica per averlo capito. Chapeau.